«Lei non lo potrà più salvare, Flugbeil!» disse la contessa fissando, in una immobile attesa, la porta. «Come allora… Sì, con un pugnale piantato nel cuore. E lei dovrà ripetere: Qui, purtroppo, ogni arte umana è vana».

A tutta prima, il medico di corte non capì a che cosa la contessa alludesse. Poi comprese di colpo. Lo sapeva: la contessa soleva confondere il passato col presente e credeva che ciò che era stato, sempre si ripresentasse.

L’immagine che ora l’aveva presa rivisse improvvisamente anche in lui: molti, molti anni prima le avevano portato al castello del Hradscin, nella sua stessa stanza, il figlio pugnalato. E prima si era udito un urlo nel giardino e l’abbaiare di un cane, proprio come dianzi era accaduto. La stessa scena: d’intorno, i ritratti degli antenati e un candeliere d’argento posato sulla tavola.

Per un istante, il medico di corte fu così turbato, da non sapere più dove si trovasse. Il ricordo lo aveva preso in modo tale, che quando la porta si aprì e la vittima dell’incidente fu portata dentro e adagiata con cura per terra, gli parve che tutto ciò non fosse reale. Involontariamente cercò parole di conforto per la contessa, finché, d’un tratto, si rese conto che non era il figlio di lei che giaceva per terra e che, invece della giovane figura di un tempo, una contessa dai boccoli bianchi stava ora presso la tavola.

Un’idea così rapida, che egli non seppe nemmeno afferrarla del tutto, gli balenò, lasciandogli l’oscuro sentimento, che il «tempo» altro non sia se non una diabolica commedia con la quale un nemico invisibile ed onnipotente si prende giuoco del cervello umano.

Ma un tale senso presto gli si dileguò. L’unico frutto di questa esperienza fu per lui l’afferrare istantaneamente, con un sentimento di paura, quel che non era ancora riuscito ad intendere distintamente, e cioè lo stato singolare e sconcertante della mente della contessa, la quale di tempo in tempo sentiva avvenimenti storici dei lontani tempi dei suoi antenati come attuali e li mescolava inscindibilmente alla sua vita quotidiana.

Per un irresistibile impulso, egli si trovò a gridare: «Portate dell’acqua!

delle bende!» - e proprio come allora si chinò su quel corpo, cercando nel taschino la lancetta da salasso che egli continuava a portar con sé per un’antica abitudine, divenuta ormai priva di ogni ragion d’essere.

Solo quando sentì il movimento delle pulsazioni sulle mani dello svenuto e quando il suo sguardo si posò per caso sulle coscie nude e bianche di Bozena che, per vedere meglio, con la caratteristica disinvoltura delle contadine boeme si era accoccolata tirandosi su le vesti, solo allora il medico di corte si riprese: per la forza del contrasto quasi pauroso formato da quella giovane vita fiorente, dalla rigidità cadaverica dello svenuto, dalle figure spettrali dei quadri degli antenati e dai tratti senili della contessa, l’immagine del passato si sciolse, come un velo polveroso, dal presente.

Il domestico posò per terra il candelabro acceso, la luce del quale illuminò in pieno lo strano viso dell’infortunato: le labbra illividite a causa dello svenimento staccandosi innaturalmente dalle guancie imbellettate in rosso vivo lo facevano rassomigliare più alla figura di cera di una qualche vetrina, che non ad un essere umano.

«Santo cielo, ma questo è Zrcadlo!» esclamò la cameriera coprendosi pudicamente le gambe con le vesti, come sentendo che il paggio del ritratto nella nicchia, al vacillare della luce, le aveva gettato un subito sguardo bramoso.

«Chi è?» domandò la contessa, stupita.

«E’ lo Zrcadlo - cioè ‘lo Specchio’» spiegò il cameriere, traducendo la parola boema «zrcadlo» «noi, quassù sul Hradscin, lo chiamiamo così, ma non sappiamo se il suo nome sia davvero questo. Egli abita presso…» s’interruppe esitante, «sì presso Lisa la boema».

«Presso chi?».

La cameriera rise nascondendosi la faccia col braccio e gli altri domestici fecero uno sforzo per contenersi e non imitarla.

La contessa batté i piedi:

«Presso chi dunque? Voglio sapere!».

«Lisa la boema è stata in passato una… una famosa etera», disse alla fine il medico di corte volgendosi verso l’infortunato, che dava già segni di vita stringendo convulsivamente i denti. «Non sapevo che essa vivesse ancora e che se la facesse quassù, sul Hradscin. Deve essere ben vecchia, ormai. Abita certo…».

«… nella Totenstrasse, ove stanno tutte le ragazze perdute», si affrettò ad informare Bozena.