Alla fine fissò il barone Elsenwanger, che, muto pel terrore, si era aggrappato al braccio del suo amico Schirnding e gli disse, ammiccando: «Costantinuccio, è bene che tu sia qui. Ti ho già cercato tutta la sera».

«Gesù, Giuseppe e Maria!» urlò il barone correndo verso la porta, «la morte è in questa casa. Aiuto aiuto! Questi è Bogumil, il mio fratello morto!».

Anche il nobile di Schirnding, il medico di corte e la contessa, che avevano conosciuto tutti da vivo il barone Bogumil Elsenwanger avevano rabbrividito udendo la voce del sonnambulo, per la stupefacente somiglianza di essa con quella del defunto.

Senza affatto curarsi di loro, Zrcadlo si mosse affaccendato qua e là per la stanza, smosse oggetti immaginari che evidentemente solo il suo occhio vedeva ma che alla fine gli stessi spettatori credettero di percepire, tanto plastici e precisi erano i movimenti con cui egli li afferrava, li sollevava e li metteva in disparte.

Quando, ad un tratto, Zrcadlo tese l’orecchio, serrò le labbra, si diresse verso la finestra, fischiettò un paio di motivi di una canzone come se là vi fosse un gabbia con uno stornello e trasse da una cassetta parimenti invisibile del becchime tendendolo all’uccello, l’emozione degli astanti giunse a tal segno, che essi sul momento si dimenticarono dove erano e credettero proprio di ritrovarsi ai tempi, nei quali il defunto barone Bogumil aveva abitato quella stanza.

Solo quando Zrcadlo, ritornando dalla finestra, si avvicinò nuovamente alla luce, la vista del suo sordido mantello di velluto nero distrusse per un momento l’illusione ed essi rimasero impietriti per il terrore, in una muta e passiva attesa di quel che avrebbe ancora dovuto succedere.

Zrcadlo stette per un momento a riflettere, prendendo ripetutamente tabacco da una tabacchiera invisibile, poi spinse una delle sedie intagliate dinanzi ad un tavolino immaginario, in mezzo alla sala, vi si sedette e si mise a scrivere per l’aria, con la testa chinata, dopo avere presa, spuntata e tagliata nel mezzo una inesistente penna d’oca. Il tutto fu fatto con una tale spaventosa, realistica precisione, che si credette perfino di sentir stridere il coltello.

I convitati stavano a guardare col respiro sospeso - la servitù, ad un cenno del Pinguino, aveva già lasciato in punta di piedi la sala. Solo di tempo in tempo l’angoscioso gemito del barone Costantino, che non poteva staccare lo sguardo dal suo «fratello defunto», interrompeva il profondo silenzio.

Alla fine Zrcadlo sembrò aver finita la lettera o quel che d’altro s’immaginasse di scrivere, perché lo si vide fare un complicato ghirigoro, che doveva evidentemente essere la firma. Spinse di lato rumorosamente la sedia, andò verso la parete, cercò a lungo in uno degli incassi delle pitture, ove egli trovò

“realmente” una “autentica” chiave, girò una rosetta che si trovava nel rivestimento di legno e che nascondeva una serratura, aprì questa serratura, tirò un cassetto, vi depose la sua «lettera» e richiuse il tiretto.

La tensione degli spettatori era giunta a tale punto, che nessuno udì la voce di Bozena che, da fuori, chiedeva: «Signorie, possiamo entrare?».

«Ha dunque visto? Flugbeil, ha visto anche lei? Non era un vero cassetto quello che il mio defunto fratello ha aperto là?» esclamò, con voce spezzata e piagnucolante, il barone Elsenwanger rompendo il silenzio; «di quel cassetto, io non sapevo nulla!». Gemendo e con le mani giunte, proruppe: «Bogumil, per la misericordia divina, io non ti ho fatto nulla! Santo Ladislao, che egli mi abbia disereditato perché da trenta anni non sono più stato nella Teinkirche?».

Il medico di corte voleva andare ad osservare la parete, ma un forte bussare alla porta lo arrestò.

Poco dopo si trovava nella stanza un’alta snella figura femminile che Bozena presentò come «Lisa la boema». Il suo abito era quasi ridotto ad uno straccio; ma il taglio e il modo con cui aderiva alle spalle e ai fianchi diceva con che cura fosse stato a suo tempo confezionato. Benché sgualcite fino all’irriconoscibilità e ricoperte di sporco, le guarnizioni al collo e alle maniche erano di vero pizzo di Bruxelles.

Quella donna poteva aver già la settantina, ma i suoi lineamenti malgrado l’orribile devastazione che dolore e miseria vi avevano operata, dicevano ancora della sua bellezza di una volta.

Una certa sicurezza e il modo calmo e quasi beffardo con cui essa guardò i tre signori - la contessa Zahradka non fu nemmeno degnata di uno sguardo -

lasciarono capire che l’ambiente non la metteva affatto in soggezione.

Essa lì per lì sembrò anzi divertirsi per l’imbarazzo degli uomini - che, avendola evidentemente ben conosciuta in gioventù, ora non volevano farlo capire alla contessa - perché sorrise con una certa intenzione e soddisfazione; poi prevenne il medico di corte, che stava cominciando a balbettare qualcosa d’incomprensibile, domandando cortesemente:

«I signori mi hanno mandata a chiamare. Posso chiedere di che si tratta?».

Sorpresa dalla purità della lingua e dal tono armonioso, per quanto un poco rauco, della voce della nuova venuta, la contessa inforcò l’occhialino e scrutò con sguardo fulminante la vecchia “cocotte”. Un sicuro istinto di donna le aveva fatto comprendere subito la vera causa dell’imbarazzo degli uomini ed essa cercò di salvare la situazione, che cominciava a divenire scottante, facendo a sua volta una serie di rapide, secche domande.

«Quell’uomo» - ed indicò Zrcadlo che, col viso rivolto verso la parete, stava immobile dinanzi al quadro rappresentante la dama bionda in abito rococò -

«quell’uomo poc’anzi è penetrato nel recinto del giardino. Chi è? Che vuole? Mi è stato detto che abita da voi. Che gli succede? E’ pazzo? O è… è ubbr…?»

non riuscì a pronunciare la parola, essendo stata nuovamente presa dal terrore al semplice ricordo di ciò che un momento fa aveva visto.