È una vera fortuna! … Va! Prima Luisa, e poi sbrigati! Corri! Corri!
- E se non fosse alla Carità?
- Ci sarà. È la sua ora, e ad ogni modo troverai certamente un suo allievo, quello ch’egli mandò, due mesi fa, quando il piccino fu ammalato e lui non poté venire… Ma corri, dunque! Corri! Santo Dio! Povera signora! Come piange! Lo amava tanto!… Ah! è proprio vero che lui non avrebbe dovuto fare una cosa simile! Ma che mai gli sarà capitato?…
- Sì, che cosa sarà capitato, al nostro povero padrone? - si domandava anche Giovanni Bourrachot, andando col suo passo più veloce da via San Domenico a via dell’Università, che sbocca appunto in via Jacob, dov’è l’antico ospedale.
Il suo semplice buon senso di contadino gli suggeriva una risposta a quella domanda, poiché anch’egli aveva sentito parlare del suicidio dello zio di Giovanni Vialis: “Quand’è in una famiglia, questa idea di distruggersi!… Però, lui che amava tanto la signora! .., E lei, e lei, quanto gli voleva bene!… Se impazzisse, non me ne stupirei affatto!… Purché ci sia, Vernat! Aggiusterà tutto lui, con la Giustizia!..Infatti, c’è anche questa complicazione… Mia moglie ha ragione. Ah! che testa fine!… Ecco! Me l’aveva detto… Ecco Vernat!”
Egli aveva riconosciuto, ferma davanti al portone della Carità, la carrozza della quale aveva aperto tante volte lo sportello, davanti all’ingresso del pianterreno dei Vialis, da quando la giovane coppia aveva preso per medico Vernat, cioè da cinque anni. I Vialis l’avevano ereditato dai loro genitori, i quali l’avevano avuto dal famoso Trousseau. L’illustre maestro aveva indovinato in Vernat un genio medico del lo stesso genere del suo, fatto per la clinica più che per il laboratorio. E qui si presenta l’opportunità di tracciare un altro ritratto: quello di quel gran terapeutico, che, come professore, con minor precisione, nella forma, di quanta ne aveva avuta Trousseau, e con un’eloquenza convincente inferiore a quella del suo rivale Giorgio Dieulafoy, fu una delle celebrità della Facoltà di Parigi. Ma se c’è una gloria effimera quanto quella degli attori e dei cantanti, questa gloria è appunto quella del medico. Dopo la sua morte, rimane soltanto la memoria delle sue teorie, e, in medicina, le ipotesi di oggi saranno sostituite da quelle di domani. Broussais, Charcot, Bouchard… che cosa rappresentano questi nomi, il cui prestigio fu sovrano? Tre romanzi patologici, uno sull’infiammazione, l’altro sull’isterismo, il terzo sui rallentamenti della nutrizione. Il vero valore di quegli uomini superiori consisteva in una forza personale, scomparsa con loro, tanto potente mentre essi vivevano, che certe cure, inefficaci fra altre mani, guarivano se erano dirette da loro. Questo prestigio, Paolo Vernat l’aveva già al massimo grado, in quel periodo dei suoi esordi, nel quale non aveva ancora, come più tardi, il vantaggio degli onori ufficiali, che s’impongono agli ammalati ancor più che ai colleghi. Egli non era che un libero docente e un semplice medico degli ospedali. Ma avvicinarlo, equivaleva a credere in lui, ciecamente. Quella sua forza di persuasione dominatrice doveva fargli sostenere una parte decisiva in un’avventura di un ordine banale quanto tragico. Se la prudente cameriera non avesse impedito a suo marito di rivolgersi ad un medicastro di rione, secondo la prima idea ch’egli aveva avuto, certo quel suicidio di un impulsivo non sarebbe stato altro che un brutale fatto di cronaca. Esso non avrebbe dato origine al grande e profondo dramma di vita morale a cui il gesto frenetico del povero Giovanni Vialis servì di prologo sanguinoso, dramma prolungato durante tutta un’esistenza di vedova e di madre, e che ebbe per teatro un’anima ammirabile.
Il più strano è che quel medico, il cui intervento determinò il dramma, era allora, come tanti uomini distinti della sua generazione, un negatore sistematico del mondo spirituale. Egli è rimasto tale perfino nella morte, e i suoi amici credenti - poiché ne aveva - conservano il tristissimo ricordo del pomeriggio d’estate nel quale accompagnarono al cimitero del Père Lachaise il funerale civile che quell’uomo pieno d’abnegazione e di cuore aveva formalmente voluto. Rimane infatti insolubile, almeno per me, questo enigma: - la sensibilità di Vernat, di quello scientista per quale nulla esisteva che non dipendesse dal bisturi e dalla storta, era tutta altruismo, tutta sacrificio. Nessuno ebbe più di lui, dalla prima e laboriosa gioventù fino alla fulgida maturità, la preoccupazione appassionata della fermezza morale, l’odio dell’impostura, il disgusto dei compromessi di coscienza, il culto scrupoloso del dovere. Queste virtù, egli le esigeva intorno a sé. L’egoismo e la furberia l’indignavano, anche nelle loro manifestazioni più innocue. Per esempio, se un candidato si faceva raccomandare per un esame, un tale inabile e quasi infantile intrigo bastava perché egli fosse doppiamente severo nel suo verdetto. Questa rigidezza da giansenista ateo andava unita ad una impareggiabile delicatezza d’amicizia, quando egli aveva concesso a qualcuno la propria stima e la propria simpatia. Quella non era mai disgiunta da questa. Egli aveva il dono rarissimo della comprensione affettuosa. “Per guarire un ammalato, - insegnava ai suoi allievi, - bisogna anzitutto consolarlo”. - Ciò equivaleva a dire che esiste un’influenza sovrana dell’anima sul corpo, ed egli non credeva nell’anima! Un prete di grande valore, ch’egli aveva curato con la maestria e la sollecitudine di cui dava prova invariabilmente, gli domandava un giorno: ”Ma, insomma, come spiegate il pensiero?”
- “Col moto”. - “E il moto?” - “Coll’energia”. - “E l’energia?” - “Esiste, e tanto basta”. - “Ma se essa giunge a produrre il pensiero, ciò vuol dire che lo contiene.
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