- Ah, quella donna non lo piglierà, no, non lo piglierà! - si diceva di tratto in tratto.

Per quel giorno ella non ritornò; venne l’indomani, sola.

- Come, sola? - le chiese Matteo con ironia.

Ella non si degnò rispondere, ma trasse fuori un telegramma del padrone, che pregava Matteo di consegnare il bimbo a lei.

Matteo guardò la provenienza del telegramma, e vide il nome d’una città vicina.

- Come, non è a Roma? Ebbene, tanto meglio - pensò.

- La signora mi scusi, - disse a Luigina, rendendole il telegramma, - ma io resto fermo nel mio proposito faccia lei quello che crede.

Allora ella si mise a strepitare, dicendo parole triviali; anche il suo viso, piuttosto bello, prese un’espressione volgare e quasi ripugnante. Matteo la lasciò dire, guardandola fisso profondamente disgustato. Sentiva tutti i tormenti che quella donnaccia doveva aver fatto subire al bambino, e si chiedeva che razza d’uomo era il Lauretti a lasciarsi dominare da un’amante così triviale.

- Parli piano, signora, - le disse con ironica cortesia, - badi che chi più grida ha torto. Le ripeto di fare tutto quello che le aggrada, ma io non consegnerò il bimbo che al padre in persona. Per affrettarne il ritorno gli scriverò oggi, subito, informandolo di tutto.

Ella tacque, evidentemente impaurita da queste ultime parole.

- Faccia quello che crede - disse sforzandosi a parer fredda, e se ne andò.

Matteo scrisse al Lauretti una lunga lettera abbastanza dura e severa, stigmatizzando apertamente la sua condotta, e dicendogli che, poiché non era buono lui, altri d’ora in avanti avrebbero vigilato sul piccino.

Queste parole però, scritte inconsciamente, gli diedero ancora quel senso di gelo, di vuoto, che lo assaliva al ricordo della sua prossima fine.

Ah, egli doveva morire: chi dunque poteva vegliare sul bimbo?

Anche quel giorno restò a casa, sempre in compagnia del grazioso Gino. Le ore gli scorrevano rapide, quasi serene, in un oblìo vago della sua sorte.

Verso sera gli fu recata una lettera di Luigina. La donna, paurosa di quanto poteva accadere se il padrone veniva a conoscer intera la verità, si faceva umile e supplichevole, pregando Matteo di non comprometterla, e promettendo di esser d’ora in avanti affettuosissima col piccolo fuggitivo.

Matteo diventò pensieroso:

- Se la credessi? Se me ne lavassi le mani? Che cosa devo aspettare? Che cosa devo fare?

- Che cosa devo fare? - ripeté tosto fra sé. Ricordò che doveva morire; e in quel momento provò una sensazione non ignota, ma provata soltanto nei primi giorni nei quali l’idea del suicidio gli era venuta in mente.

Sentì cioè un’arcana paura della morte; gli parve che il coraggio di morire gli venisse meno. S’accorse di questa paura, l’esaminò e provò un moto di collera.

- Ah, ho lasciato passare il tempo! - gridò fra sé. - Ancora un giorno e morrò vilmente.

E di nuovo pensò esaudire il desiderio della giovine donna, consegnandole il bimbo prima del ritorno del Lauretti.

Prese una carta da visita, vi scrisse due o tre righe, le rilesse attentamente, come era suo costume. Poi improvvisamente, balzò in piedi, stracciò la carta da visita, e andò in cerca del bimbo.