Una strana idea gli era venuta:
- Questo bambino è al padre forse più d’impiccio che altro. Gli proporrò di lasciarmelo, lo adotterò, lo farò mio erede.
A quest’idea la visione della morte se ne andava lontana.
Nella notte seguente Matteo non poté dormire; il suo sogno gli pareva sempre più facile, e già vaghi progetti per l’avvenire gli passavano nella mente.
Il passato andava in seconda linea: i dolori profondi che avevano germinato l’idea della morte si facevano piccoli, velati; anzi, in certi momenti, Matteo provava una segreta meraviglia del come s’era deciso a morire.
8
Il tempo restava costantemente bello e primaverile, e ciò influiva assai nei nuovi sentimenti di Matteo. Di sera, quando s’affacciava al verone col piccolo Gino, il gran cielo diafano, il luminoso tramonto di Venere, il crepuscolo glauco nel quale la luna nuotava limpidissima, l’aria tiepida soffusa di voci arcane, di lontani suoni vibranti, l’umido profumo dei crisantemi bianchi del verone, che avevano come uno splendore lunare, gli davano una tenerezza dolorosa, quasi sentimentale, palpitante di vita.
Sentiva che la vita si era misteriosamente attaccata al filo di un sogno, e che questo sogno era assurdo: eppure si ostinava a sognarlo, e sognandolo si sentiva sospeso tra la vita e la morte.
Il bambino pareva felice. Aveva preso possesso di tutto l’appartamento; e sopra ogni oggetto aveva svolto le sue domande esaurienti, contentandosi delle spiegazioni, più o meno chiare, di Matteo e della fantesca.
Nei quattro giorni trascorsi non aveva pianto una sola volta, non chiesto di partire né di rimanere. Pareva possedere in sommo grado la virtù di adattamento, e godere spensieratamente l’ora presente. Sapeva che suo padre doveva giungere fra poco, ma non temeva il suo arrivo.
Matteo si convinceva sempre più che il piccino doveva aver subìto grandi maltrattamenti se, essendo così tranquillo, così paziente, così educato per istinto, era scappato di casa.
A che pensava intanto?
- Domani, forse oggi, arriva tuo padre, - gli disse Matteo, - arriva e ti prende con sé.
- E dove mi porta?
- Ma! A casa, da Lauretta.
- No, mi lascia qui - disse tranquillamente Gino.
Lo stesso sogno di Matteo aveva dunque conquistato e tranquillizzato la piccola anima.
Matteo ne provò una strana gioia, un lieto presentimento di bene. Non restava che attendere il Lauretti. Ogni volta che si picchiava alla porta, Matteo sentiva battere con violenza il cuore e cambiava colore.
Il Lauretti, però, non giunse che due giorni dopo. Era un uomo alto, magro, con occhi azzurri, infossati e fissi, e il volto terreo solcato da due grandi baffi biondi spioventi. Un tipo d’abbrutito, che disgustò immediatamente Matteo.
Questo aveva impallidito nel riceverlo. Il Lauretti si scusò tosto di non esser potuto venir prima. La sua voce era bassa, grossa: le parole stentate. Pareva un uomo senza volontà sensitive; e Matteo sperò più che mai di veder esaudito il suo desiderio.
Il Lauretti continuava a scusarsi. - Del resto, - disse, - poteva consegnare il bimbo alla cameriera.
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