- Mi lasci il bimbo a pranzo, oggi, - disse cortesemente, - glielo riporterò io.

- Sarà meglio così, sì grazie - rispose l’altro inchinandosi.

- Mi permetterà almeno di vederlo spesso?

- E di vigilarlo anche - disse il Lauretti ridendo, e avviandosi verso l’uscio.

Anche Matteo rise a fior di labbro e mormorò confuso:

- Anche… anche…

Sulla porta si toccarono freddamente la mano: il Lauretti s’inchinò di nuovo, ringraziò ancora e se ne andò tranquillamente.

Allora Matteo entrò dal bambino, lo prese sulle sue ginocchia e lo contemplò a lungo; e, ciò che non gli era più accaduto dopo la sua infanzia, due lagrime gli calarono sulle guancie.

Il bimbo lo guardava un po’ meravigliato, un po’ intimidito.

- Chi ti è morto? - domandò piano piano, timidamente.

No, non gli era morto nessuno; era anzi egli che risuscitava per esser da lontano al bimbo ciò che aveva sognato essergli da vicino.

LE DUE GIUSTIZIE

In un misero villaggio sardo, il più povero degli abitanti si chiamava Quirico Oroveru, soprannominato Barabba, da una volta che aveva rappresentato questo personaggio in una sacra rappresentazione.

Ziu Chircu Barabba era più povero degli stessi mendicanti: aveva una sola camicia, un solo paio di calzoni di tela, un paio di brache di orbace e un berretto che egli medesimo s’era fatto con una pelle di lepre; non aveva bottoni alla camicia, non avea giubbone, non cappotto, non uose; e neppure scarpe, il che costituiva la più grande miseria per un uomo di quel paese.

Eppure, egli era sano e forte, un bel tipo quasi celtico, alto e rossigno, con occhi sempre sorridenti. Ma che volete, era stato allevato così, abituato solo a portar legna dai boschi e venderla; non sapeva lavorar altrimenti, ma del resto era innocuo come una lucertola e innocente come un bimbo di sette anni. Tutto il 10

suo patrimonio, oltre il vestiario suddetto, consisteva in una medaglia di argento che teneva appesa al collo sin da bambino; in una accetta, una corda di pelo di cavallo - egli stesso l’aveva intrecciata - e in un coltello a serramanico.

Eppure, spesso, egli era contento, e più tranquillo dello stesso signor Saturnino Solitta, il più ricco del paese, la cui ampia casa nuova pareva fabbricata con la neve, qua e là adorna di strisce di cielo. Zio Chircu passava quasi tutti i suoi giorni nel bosco, così bello e silenzioso in qualsiasi ora e in tutte le stagioni, sia quando gli elci si coprivano di fiori d’oro pallido, o quando incombevano gli azzurri meriggi estivi, o quando taceva tutto d’un verde umido, sull’argento del cielo autunnale, o quando i grandi rami s’incurvavano sotto la neve cristallizzata dal gelo. Il taglialegna picchiava sempre. - Toc, toc, toc - diceva continuamente, nel silenzio del bosco, l’albero scosso dall’accetta. - Chiù, chiù, chiùùù… - rispondeva in lontananza, vicino alla fontana verde, un uccello silvano. Null’altro. Ziu Chircu o pregava, o pensava di portar le legna nella casa ove meglio le pagavano, oppure desiderava comprarsi un paio di scarpe.

Aveva circa quarantacinque anni quando un giorno due uomini vestiti di turchino, con bottoni gialli sulla giacca, lo fermarono nel bosco:

- Che fate voi? - gli chiesero.

- Non lo vedete? - diss’egli, fermo e curvo sotto il suo carico di legna, ma a viso alto.

- Avete terreni, voi, nel bosco?

Egli si mise a ridere sporgendo e guardando uno dei suoi piedi nudi.

- Non ho neppure scarpe.

- Ebbene, allora voi siete in contravvenzione forestale. O chi vi ha dato il permesso di tagliar nel bosco?

- Nessuno. Me lo prendo io perché altrimenti muoio di fame.

- Ebbene, allora siete in contravvenzione forestale.

- Cosa vuol dire questo?

- Che dovete pagare una multa o scontarla in carcere.

Zio Chircu non ebbe più voglia di ridere: anzi s’annuvolò in volto.