- Ma se sono trent’anni che taglio legna, e nessuno mi ha detto mai che dovevo lasciar stare e morire di fame.
I due guardaboschi parvero commuoversi.
- Ma che volete, caro mio, ora la legge è così, e bisogna rispettarla. Per questa volta andate pure, ma badate di non farvi incontrare altra volta.
Invece lo incontrarono molte altre volte, e alla fine, un giorno, gli tolsero il carico e lo dichiararono in contravvenzione. Essi non erano cattivi, anzi avevano compassione del povero uomo, ma che volevano farci? Era il loro dovere obbedire alla legge.
Zio Chircu continuò tuttavia il suo mestiere, ma con somma prudenza: s’internava nei luoghi più selvaggi, dove non s’udiva neppure il chiù, chiù dell’uccello silvano. Anche il toc, toc, dell’albero scosso dall’accetta risuonava timido, a intervalli: parea che ogni tanto la pianta fremente, si quietasse in pauroso ascolto. Zio Chircu intanto fu tradotto davanti al pretore del paese, e condannato a una gravissima multa, perché tutti i testimoni, padroni della foresta, dichiararono ch’egli era uno dei più grandi e assidui devastatori del bosco.
Egli doveva scontare questa multa in carcere. Gli pareva un orribile sogno, e soffriva come mai aveva sofferto in vita sua: in pochi giorni parve invecchiare di dieci anni, diventò più sporco e lacero di prima, e i suoi occhi s’offuscarono. Ah no, in carcere egli non voleva entrarci, almeno finché durava la bella stagione. E neppure nella cattiva, avrebbe voluto entrarci, perché era in inverno che le legna si vendevano bene. Ad ogni modo s’intese con un altro uomo del paese, e si diede alla campagna; tanto c’era avvezzo, e poco gli importava rientrar in paese. Egli tagliava le legna, e l’altro uomo le vendeva, recandole al villaggio; però lo truffava della metà, ed egli doveva star zitto e rassegnarsi.
Si sentiva profondamente infelice, doveva andare in boschi lontani, e per lo più tagliava le legna di notte, quando la luna calava sui boschi solitari, e al toc, toc dell’accetta, vibrato in quell’arcano silenzio lunare, rispondeva il cu cu 11
del cuculo, che or pareva salire dalle profondità del bosco, or scendere dalle trasparenze pallide del cielo.
Così passò l’autunno, passò l’inverno, e venne la primavera. Zio Chircu era in estrema miseria, quasi ignudo, coi capelli e la barba inselvatichiti, e spesso soffriva la fame; ma non voleva arrendersi. No, no, non s’era arreso durante i grandi freddi invernali, e tanto meno voleva arrendersi ora che il sole metteva un tepore ineffabile nelle radure del bosco, profumate di ciclamini e viole. Si sarebbe arreso al tornar dell’inverno: c’era tempo ancora.
Intanto, un giorno che attraversava una pianura per recarsi da un bosco all’altro, la fortuna parve arridergli. Sotto un cespuglio trovò un grosso portafogli rosso, due portamonete, una borsetta e delle carte che la rugiada aveva inumidito alquanto. Guardò: denaro non c’era ma le carte dovevano esser d’importanza e forse il padrone gli avrebbe dato qualche mancia nel riaverle.
Raccolse quindi ogni cosa e proseguì la sua strada, e quando vide l’amico che gli vendeva le legna, il quale sapeva leggere, gli raccontò ogni cosa.
- Oh, che il diavolo ci aiuti, queste cose erano del signor Saturnino Solitta! -
gridò il compagno, guardandolo con diffidenza. Zio Chircu ebbe un brivido di paura, di raccapriccio. Il signor Saturnino Solitta era stato assassinato poco tempo prima, mentre tornava da Cagliari, dove aveva imbarcato e venduto un gran numero di porci grassi. Senza dubbio, l’assassino, dopo aver tolti i denari, aveva buttato via i portafogli e le carte.
- Queste sono cambiali, e questo foglio è come sia del denaro, vedi - disse l’uomo del paese, che sapeva leggere e scrivere ed era stato servo in una casa ricca. - Se tu vai in un negozio te lo cambiano subito.
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