Tutto ciò rapidamente.

- Chi vi ha consegnato questo foglio? - gli domandò il signore dalle labbra grosse.

- L’ho trovato - rispose zio Chircu rispettosamente, alzandosi e tenendo in mano le scarpe dell’amico.

- Dove lo avete trovato?

- Così e così.

- Buon uomo, - disse il signore, con una certa buona maniera, forse temendo che quell’uomo alto e selvaggio facesse ribellione, - voi dovete far il favore di venir con noi per raccontar meglio il fatto al signor ispettore.

E zio Chircu li seguì docilmente illuso in cuor suo che bastasse dir la verità per esser creduto. Ma in fondo all’anima sentiva una misteriosa oppressione, l’occulto presentimento di cose spaventose.

Nell’ufficio, il signore e i poliziotti cambiarono di modi. Zio Chircu fu di nuovo interrogato rudemente da un altro signore pallido e calvo, poi fu spogliato e frugato. Gli rinvennero le spoglie del delitto, e passò tosto per l’assassino del signor Saturnino Solitta.

Lo gettarono in carcere, lo sottoposero a lunghi, crudeli, atroci interrogatorii. Ogni giorno venivano dei signori, chi con gli occhiali, chi con la barba bionda, e gli domandavano mille cose strane, e volevano che assolutamente egli dicesse come e quando aveva ammazzato il signor Saturnino Solitta.

- Ma io non ho ammazzato nessuno, - diceva lui, - io queste cose le ho trovate, e non sapevo neppure cosa fossero. Un amico mi consigliò di cambiare quel foglio e siccome io avevo gran desiderio di un paio di scarpe, ho seguito il suo consiglio. Domandatelo a lui se non mi credete.

Lo fecero venire, lo domandarono: l’uomo ammise di aver prestato le sue vesti -

e le voleva restituite - di aver prestato le sue scarpe all’Orovei, ma non sapeva nulla, non avea consigliato nulla.

- Che farabutto, che faccia tosta, - diceva fra sé zio Chircu, - eh, già, dovevo pensarmelo, dopo il fatto delle legna!

- Ebbene, - disse al giudice, per vendicarsi, - se non mi ha consigliato nulla, non mi ha prestato neppure le sue vesti -. - Così almeno non gliele restituiscono - pensava. Ma poi si pentì e si disdisse. Ah, no, non voleva offendere oltre la bontà del Signore, sicuro come era che la disgrazia presente gli succedeva perché aveva già peccato, appropriandosi della roba altrui.

Nelle lunghe ore di cella, mentre istintivamente provava la nostalgia dei grandi boschi solitarii e del cielo aperto, si sentiva infelice, infelice; ricordava i giorni della sua latitanza e quanto ne aveva sofferto, e gli sembrava d’aver peccato, allora, lagnandosi, perché il patimento di quei giorni era una felicità grande, in confronto della tristezza presente. Eppure, non aveva ancora una giusta idea delle terribili cose che lo aspettavano. Sperava sempre di venir da un momento all’altro liberato, e ogni notte addormentandosi, sentiva il toc, toc dell’accetta vibrato nel silenzio della foresta, e accompagnato dal grido lento e melanconico del cuculo.

13

Passò gran tempo. Nessuno si ricordava di zio Barabba; nessuno gli faceva colloquio, come suol dirsi, o gli mandava un sigaro o un litro di vino o un pane o una camicia pulita, come ne riceveva anche il più misero dei prigionieri.

Anche quei signori con gli occhiali brillanti, che mettevano paura a guardarli, o con la barba bionda o calvi e pallidi, s’erano dimenticati di lui.

Ma un giorno gli mandarono un foglio, parte stampato e parte manoscritto: egli se lo fece spiegare trepidando. Era la deliberazione della camera di consiglio, che lo rimandava a dibattimento alle Assise. Poi gli mandarono un avvocato, un giovinotto verdognolo in viso, bilioso o indifferente secondo i momenti. Anche questo giovinotto pretendeva che zio Chircu gli dicesse d’aver assassinato il signor Saturnino Solitta.