- Ditemi la verità, - diceva, - agli avvocati si deve confessar tutta la verità, poi le cose s’accomodano.

Per un momento zio Barabba ebbe la tentazione di dire che aveva ammazzato il Solitta; tanto gli parve più facile liberarsi confessando il preteso delitto che affermando la verità. Ma quando la faccia verdognola dell’avvocato non gli stava davanti, tornava a sperare nel trionfo della verità; eppoi, i compagni di carcere gli dicevano che i giurati erano uomini probi, con cuore umano e non con cuore di pietra come i magistrati.

Venne il giorno del dibattimento: zio Chircu si svegliò quasi allegro, avendo sognato di esser nel bosco a tagliar legna, vicino ad un fiume: un uccello palustre, nero, con lunghe e grandi zampe verdi come giunco, modulava uno strano canto su un ramo di salice selvatico.

Fra i testimoni comparve l’amico delle legna, ed altri deposero che l’imputato era un uomo selvaggio, cupo, insocievole.

Il pubblico ministero lo dipinse come «una fiera dei boschi, che aveva lungamente meditato il delitto, aspettando la vittima al varco, come belva appostata in attesa della sua preda». Proprio così.

Zio Barabba guardava spaventato quel signore dagli occhiali brillanti, al quale non aveva mai fatto alcun male, e ne provava uno strano terrore.

Per confortarsi volgeva lo sguardo ai giurati, uomini dei villaggi, pacifici, grassi, d’aspetto umano, e sperava. Parlò l’avvocato. Era più verde che mai: se aveva qualche slancio, questo consisteva in uno stridere di denti di pessimo effetto.

Basta; il povero uomo fu condannato ai lavori forzati a vita. Egli pianse amaramente; guardò ancora una volta i giurati, quegli uomini grassi, pacifici, d’aspetto buono; ricordò il suo sogno, la sua fiducia cieca nel trionfo della verità, e si disse che tutte le cose che sembrano belle erano false.

Per confortarlo, l’avvocato gli disse che avrebbero tosto ricorso in Cassazione; ma egli non aveva più fiducia, non credeva, non sperava più. Il cuore gli si restrinse, gli si fece secco e amaro come una susina selvatica: non pregò, non pianse più.

E lo portarono lontano, lontano, in una salina; gli rasero i capelli, la barba, i baffi; lo vestirono di rosso e gli saldarono una catena al piede. Nei primi tempi egli visse disperatamente: la vista del mare immenso, a lui avvezzo ai boschi umidi e chiusi, accresceva il senso d’una disperata nostalgia.

Ma col passare degli anni si avvezzò a tutto, si rassegnò, e le sue memorie si confusero: talvolta anzi, pensando che al paese la sua vecchiaia sarebbe trascorsa nella più nera miseria, si confortava sapendola ora al sicuro.

Però era diventato cattivo; aveva perduto l’innocenza serbata fino al giorno della sua condanna; imprecava, e se c’era occasione rubava e s’ubbriacava come il più vile dei galeotti. A Dio non pensava più; o se ci pensava era con ira, come ad una cosa mostruosa che aveva permesso si compiesse su una sua creatura la più infame delle ingiustizie.

Fra i compagni di sventura, zio Barabba strinse amicizia con un altro sardo, un vecchietto che gli arrivava appena alla cintura, con un piccolo volto grasso e rosso nel quale erano affondati due occhietti d’un vivissimo azzurro.

Era nativo d’un paese vicino a quello di zio Chircu; si chiamava zio Pretu (Pietro).

Era un ometto allegro, spregiudicato e bugiardo: però dopo aver fatto credere ai suoi compagni le cose più meravigliose, rideva sguaiatamente, dicendo che le sue storie erano tutte panzane. Quando zio Chircu giunse all’ergastolo, zio Pretu non veniva già più creduto in nulla. Se però diceva qualche verità, il suo 14

accento era tale che s’imponeva: ma questa verità zio Pretu la diceva raramente, e con pochissimi. Con poche parole, e con quel raro accento veritiero, raccontò la sua storia a zio Chircu, dopo che se ne ebbe acquistata tutta la confidenza.

- Senti. Io sono di tal paese. Stavo bene, sai, avevo vacche, alveari, terre seminate di frumento e di fave. Ma volevo star meglio.