Ah, quanto, quanto aveva peccato! Ma si pentiva amaramente, e sentiva che anche non ritrovando la brocca, non si sarebbe lamentato riconoscendo in ciò il giusto castigo di Dio.

Sorse la luna: le foglie bagnate dei pioppi risplendevano come argento, l’odore umido si rendeva più distinto.

Zio Barabba s’inginocchiò e cominciò a zappare pauroso, in quell’infinito silenzio solitario, dell’unico rumore ch’egli stesso produceva. La terra umida, nera, odorosa, veniva fuori, riversandosi sulle ginocchia del vecchio che si curvava sempre più. Alla fine la piccola zappa fece un suono metallico, incontrando un corpo duro. Zio Barabba sprofondò il braccio, toccò l’ansa della brocca; poi continuò a scavare con ardore selvaggio, e dopo un poco la brocca fu fuori. Egli la scosse. Drin, drin, drin, fecero dentro, le monete.

Allora egli si segnò, e col viso sollevato al cielo ringraziò la misericordia divina.

Sembrava un vecchio selvaggio in adorazione della luna.

LA GIUMENTA NERA

Preceduto da due servi, Antonio Dalvy andava di villaggio in villaggio, acquistando giumente e puledri di buona razza, per spedirli al continente. Egli era un bell’uomo sui quaranta, alto, grasso, con la testa gettata all’indietro; con occhi un po’ obliqui, un po’ verdognoli, d’un fuoco straordinario, mal celato da grosse palpebre abbassate. Era discretamente ricco, ammogliato con una donna nobile; un uomo operoso, infine, d’ottima fama.

Faceva grossi negozi di scorza, di carbone, di cenere, ed ogni anno andava in terra ferma. Quell’anno, un suo corrispondente gli aveva proposto di acquistare un certo numero di puledri e giumente di buona razza sarda. Prevedendo un buon guadagno, egli s’era messo tosto all’opera.

Bellia e Ghisparru, i due servi, lo accompagnavano o lo precedevano, scovando nei villaggi e nelle campagne del Nuorese i bei puledri dalle forme perfette, e le giumente dagli occhi melanconici.

Il negozio procedeva così. Davanti a due testimoni, Antonio Dalvy dava una caparra al venditore, e gli lasciava in custodia la bestia acquistata. Al ritorno, finito il giro, padrone e servi sarebbero ripassati per prendersi, mano mano, i puledri e le giumente, versando il restante prezzo.

Era di maggio, e Dalvy viaggiava su un bel cavallo alto e rosso, dalla piccola testa irrequieta. Nelle ore di gran sole, quando le alte erbe dei piani selvaggi lucevano, immobili sotto lo splendore del cielo turchino, il negoziante spalancava un ombrello verde, piantandoselo ben davanti al viso.

Allora la linea obliqua dei suoi occhi semichiusi, sotto l’ombra verde, al riflesso verde dei pascoli, delle macchie ardenti, pareva di smeraldo: si scorgeva da lontano.

Un giorno i servi capitarono vicino ad una chiesa campestre.

- Andiamo a dir un’ave-maria - disse Ghisparru, che era assai devoto, sebbene molto ignorante e selvaggio.

Ma Bellia era stato soldato, non credeva molto in Dio; e rise udendo la proposta del compagno.

17

Tuttavia s’avvicinarono alla chiesa. Questa chiesetta sorgeva nel mezzo di due cortili, uno dentro l’altro, ed entrambi circondati di stanzette, chiamate cumbissias, nelle quali abitavano i devoti paesani dei borghi vicini, durante il tempo della novena.

Ora la chiesetta coi suoi due cortili, coi suoi due portoni, coi suoi due circoli di cumbissias, taceva deserta fra i campi verdi, nel selvaggio fiorir delle macchie.

Intorno si stendeva una specie di brughiera, fitta di piccole macchie, di rose canine, di mirti e corbezzoli in fiore.