La primavera moriva in uno splendore di messi, d’erba fiorita, di cielo ardente.
Dal suo portone il vecchio vedeva distese di papaveri che ardevano come brage, e più in là, verso l’orizzonte, praterie interamente coperte di fiori violetti.
Niente animava quella splendida solitudine; solo di notte, sotto le lucide stelle, al soffio caldo di selvaggie fragranze, giungeva un lontano tintinnar di greggie, lento, tranquillo, melanconico.
Ma al giunger della notte, zio Juanne si faceva ancor più triste e cupo: girava tremando per i cortili, spesso si gettava per terra, pregando, temendo che un giorno o l’altro lo trovassero lì morto, mezzo divorato dai corvi.
Verso la metà di maggio, venne il priore, un ricco paesano dal corpetto rosso, dalla barba bianca, ispezionò ogni cosa, fece pulire le stanze del cappellano, e ripartì. Pochi giorni dopo ritornò in capo ad una numerosa carovana di paesani a cavallo.
Il priore portava uno stendardo di broccato verde, con lunghi nastri; poi veniva il cappellano in fracchina [5] nera, poi altri paesani tutti vestiti in rosso, con donne sedute in groppa ai piccoli cavalli, e bambini in iscuffiotto di 22
scarlatto, con la fronte coperta da fitte frangie di seta nera; e cani stanchi, ansanti, a lingua fuori.
Da lontano i paesani cominciarono a sparare, a emettere urli di gioia.
Zio Juanne tirava la corda della campana e la campana suonava, e i rintocchi sottili, fessi, si smarrivano nell’aria azzurra.
La gente arrivò, smontò, entrò in chiesa: e le donne portavano offerte di cera, di monete, di merletti, di ricami, di fiori.
Poi ogni famiglia prese ad abitare una cumbissia: gli uomini portarono fasci d’erba e di fronde odoranti, e li sparsero in un angolo delle stanzette: le donne vi stesero su materassi, coperte, prepararono i giacigli, conficcarono chiodi nelle pareti, disposero gli arnesi recati dal paese.
Poi spazzarono la chiesa e i cortili, e gli uomini pulirono il pozzo, la cui acqua, come tutte le cose appartenenti alla chiesa, aveva, secondo il popolo, virtù miracolose.
Tutto il giorno arrivò gente: anche dai monti selvaggi della Barbagia giunsero uomini vestiti d’orbace, e donne dal cappuccio rosso.
I due cortili si cambiarono in un piccolo villaggio: la campanella squillava sempre, suonata dai fanciulletti già violenti e maneschi, che battevano tutto il paesaggio intorno animando l’immensa solitudine con le loro corse, con le loro grida di uccelli selvatici.
Il cappellano stava sempre a mensa con le gambe accavalcate, e la nappa della papalina sull’orecchio. Intorno gli si stendeva un quadro di figure caratteristiche. E tutti gridavano e ridevano.
Le donne accudivano alle loro faccende entro le stanzette: la prioressa e le donne che, per eredità secolare, facevano parte del comitato per la festa (ed erano le discendenti dei fondatori della chiesa, fra le quali soltanto venivano elette a turno le prioresse) cucinavano ogni giorno grandi caldaie di minestra e di maccheroni paesani, o di farro con formaggio fresco; e li distribuivano alle famiglie loro e ad una turba di poveri, di pezzenti puzzolenti che erano venuti ad attendarsi nel secondo cortile, venuti da lontani paesi solo per il vile scopo d’ottenere quella minestra e quel farro.
La chiesa fresca e odorosa, rallegrata dal trillo e dal fruscìo rapido delle rondini, veniva invasa e profanata da quei pezzenti che appestavano l’aria, che si grattavano, che non facevano posto, neppur pregati, alle persone civili. E si litigavano continuamente, fra loro, dandosi del mendicante e dell’immondezza, e del rognoso a tutte le ore.
Pellegrini puliti e devoti non mancavano mai. Venivano a piedi, scalzi, a testa nuda: alcune donne anzi a capelli sciolti.
Si trascinavano ginocchioni dalla porta all’altare, talvolta anche dal primo portone, e recavano offerte di denaro, di cera, di gioielli, di treccie di capelli. Se pagavano un tanto, il cappellano indossava il camice, curvava la testa per mettersi la stola, e il priore impugnava lo stendardo verde, e una processione, a conto del pellegrino, girava il cortile intorno alla chiesa: se si pagava il doppio, la processione girava per tutti i cortili.
Poi il pellegrino andava a lavarsi religiosamente nell’acqua del pozzo; poi il priore lo pigliava con sé, lo portava dalle donne che gli servivano vino, caffè, dolci di miele, e lo guardavano fisso chiedendogli di dov’era.
Egli finiva con l’ubbriacarsi come una bestia.
Se giungevano due sposi, alla donna si faceva baciar la mestola per augurarle d’esser buona massaia: lo sposo traeva dal pozzo una certa quantità d’acqua, per esser poi, nella vita, buon lavoratore.
E tutti i pellegrini dovevano almeno assaggiare, per devozione, la minestra o il farro.
Di mattina il cappellano diceva la messa, sul vespro la novena. Nessuno doveva mancarci.
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