Un agnellino bianco lambiva la corta veste del santo.

Prima di lasciar la chiesa, i devoti s’inginocchiavano sul lembo del rozzo tappeto giallo, pregavano, baciavano la piccola nicchia, e lasciavano l’offerta in un vassoio di metallo.

Giame osservò ogni cosa, girò in punta di piedi intorno al tappeto giallo, poi si mise a decifrar le lapidi. La luce rosea del vespro moriva sulla volta della chiesetta; qualche rondine passava ancora, con languidi gridi.

Giame cercava sulle lapidi la leggenda della dama ossessa che correva a cavallo, di notte, attraverso quella pianura selvaggia, al cader d’una remota primavera; ma ben presto provò una viva contrarietà, trovando in una lapide che i fondatori erano stati sette. Fra questi c’era l’illustrissima donna Raffaella Perella De-Castra, ma nulla di corse notturne a cavallo, e niente demoni, e nessun viaggio a Roma.

- Forse ci sono altri documenti, però - pensò Giame.

E si volse. Vide sua madre e Ghisparru inginocchiati sul tappeto giallo, col quale la fastosa gonnella di donna Lillica formava una stessa macchia dorata: ma l’attenzione di Giame fu tutta attratta dall’atteggiamento del servo, che pregava con intenso fervore.

- Cosa pregherà egli? - pensò.

E stette a guardarlo attentamente. Dalle finestre penetrava con la brezza un fresco odor d’erba, e dai cortili giungeva sempre la cadenza delle selvaggie cantilene:

Inie b’er Baròre - b’er Baròre,

Inie b’er Baròre - b’er Baròre,

Inie b’er Baròre - b’er Baròre,

Inie b’er Baròre - e Bustianu.

Intanto zio Juanne Battista cercava del priore, per avvertirlo che c’era una ricca dama e il figliuolo, onde si andasse a complimentarli.

Passando nel secondo cortile vide che Bellia, invece di coricarsi, s’era di nuovo seduto sul parapetto d’una loggia, fra un gruppo di ubbriachi, raccontando, metà in sardo, metà in italiano, storie poco pulite di compagni di reclusione.

Il vecchio si fermò un momento, fissando gli occhi cisposi e il fazzoletto azzurro di Bellia.

Appena costui scorse il custode s’alzò, gridando:

- Ohé, figlio di Sant’Antonio.

E si sedette di nuovo, ridendo.

28

Zio Juanne trasalì, e tosto ricordò qualche cosa di terribile.

Appena avvertito, il priore, che era anche egli alquanto alticcio, andò dai Dalvy, li coprì di complimenti, e li condusse con sé, e li presentò a sua moglie, una paesana grossa, imponente, col collo coperto di collane e medaglie filogranate.

- Grascia, questa è una dama, e questo un dottore. Presto, qui caffè, qui rosolio, qui dolci, qui caschettas [6], qui tutto quello che hai. Nella nostra modestia, signori - disse poi, inchinandosi un po’, come un gentiluomo.

Ma la moglie era assai calma, assai boriosa: non si confuse, anzi parve conceder qualche gran cosa complimentando i forestieri. Fece seder donna Lillica nel posto migliore della cumbissia, le osservò la collana, e le disse con dignità:

- Qui si è in campagna. Si fa quel che si può.

Intanto le donne di servizio preparavano il caffè. In un cantuccio una bella bimba in iscuffiotto rosso, con la fronte coperta da una densa frangia di seta nera, cullava un bimbo che pigolava come un uccellino, con le piccole braccia in aria.

- Pipiu, pipiu, agnellino nostro! - dicevano le donne, volgendosi ogni tanto verso il bimbo.

- Presto, presto, donne! - gridava il priore, versando un liquore verde entro i calici. - Questa è una dama, questo è un dottore.