La mia seconda sorella andò sposa ad un certo signor Bauchon, mercante in seterie a Parigi, in via Quincampoix, e con lui si trova bene.

Dopo che le mie sorelle furono sistemate, credetti che avrebbero pensato a me e che non avrei tardato ad uscire di convento. Avevo allora sedici anni e mezzo. Le mie sorelle avevano ricevuto doti abbastanza cospicue, ed io mi ripromettevo di esser trattata alla stessa maniera; la mia fantasia si abbandonava a progetti seducenti fino a che fui chiamata in parlatorio. Era padre Serafino, il direttore spirituale di mia madre, ed anche il mio. Non gli fu quindi difficile spiegarmi il motivo della sua visita: il suo compito era quello di convincermi a prendere il velo. Mi ribellai a una proposta così strana e gli dichiarai chiaro e tondo che non sentivo nessuna inclinazione per la vita monastica.

— Tanto peggio — mi disse, — perché i vostri genitori si sono spogliati di tutto per le vostre sorelle e non vedo proprio che cosa potrebbero fare per voi nelle strettezze in cui sono ridotti a vivere… Riflettete, signorina: dovete entrare per sempre, in questa casa oppure andarvene in qualche convento di provincia dove vi si 7

riceverà per una modica pensione e dal quale uscirete soltanto alla morte dei vostri genitori che può essere ancora lontana…

Mi risentii con molta amarezza, versai fiumi di lacrime. La superiora era già al corrente di tutto e mi aspettava al ritorno dal parlatorio. Ero in disordine da non poter spiegare. Mi disse:

— Ma che cosa avete, mia cara figliola? [Sapeva meglio di me che cosa avessi.] In che stato siete! Non si è mai vista una disperazione simile alla vostra. Mi fate tremare. Avete forse perduto il vostro signor padre o la vostra signora madre?

Fui tentata di risponderle gettandomi tra le sue braccia: «Piacesse a Dio!…», ma mi contentai di esclamare: — Ahimè! non ho né padre, né madre; sono una sventurata che detestano e che vogliono seppellire viva qui dentro.

Lasciò che passasse la piena e che tornasse la calma. Le spiegai con maggior chiarezza ciò che mi era stato appena annunciato. Sembrò aver pietà di me; mi compianse. Mi incoraggiò a non abbracciare uno stato per il quale non sentivo alcun gusto; mi promise di pregare, di fare le sue rimostranze, di perorare la mia causa. Oh, signore, come sono ipocrite queste superiore di convento! Non ne avete idea. In effetti, scrisse. Non ignorava quali sarebbero state le risposte. Me le comunicò, e soltanto molto tempo dopo imparai a dubitare della sua buona fede. Intanto venne a scadere il termine che mi era stato concesso perché prendessi una decisione, ed ella venne a ricordarmelo con studiata tristezza. Dapprima rimase silenziosa, poi lasciò cadere qualche parola di commiserazione da cui capii il resto. Ci fu un’altra scena di disperazione, e poche altre avrò da descriverne. Sapersi controllare è la loro grande arte. Poi mi disse, e ad onor del vero credo che allora piangesse:

— Allora, figliola mia, ci state dunque per lasciare! Cara figliola, non vi vedremo più!…

Aggiunse altre parole che non udii. Ero riversa su una sedia; ora tacevo, ora singhiozzavo, restavo immobile oppure mi alzavo, mi appoggiavo alla parete o andavo a sfogare il mio dolore sul suo petto. Le cose erano a questo punto allorché soggiunse:

— Ma perché non fate una cosa? Statemi ad ascoltare e non andate a raccontare che ve l’ho consigliato io; conto su una discrezione assoluta da parte vostra giacché non vorrei per nulla al mondo che mi si dovesse rimproverare. Che cosa vi si chiede?

Che prendiate il velo? E allora, perché non lo prendete? Dopo tutto a che cosa vi impegnate? A niente. A restare ancora due anni con noi.