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Non starò a descrivervi nei particolari il mio noviziato: ad osservarne tutta l’austerità, non si resisterebbe. Invece, è il tempo più dolce della vita monastica. Una madre delle novizie è la suora più indulgente che si possa trovare. La sua arte consiste nel nascondervi le spine dello stato; è il corso di seduzione più abile e sottile che si possa immaginare. È lei che rende più fitte le tenebre che vi circondano, che vi culla, che vi addormenta, che vi sottomette, che vi suggestiona. La nostra madre si attaccò a me in modo particolare. Non credo che esista un’anima, giovane e senza esperienza, in grado di resistere a quella sua arte funesta. Il mondo ha i suoi precipizi, ma non penso che vi si arrivi per una china così facile. Se avevo starnutito due volte di seguito, ero dispensata dall’uffizio, dal lavoro, dalla preghiera; mi coricavo prima, mi alzavo più tardi: la regola cessava di esistere per me. Immaginate, signore, che vi erano giorni in cui non sospiravo altro che il momento di sacrificarmi. Non accade fatto seccante nel mondo senza che se ne parli; si ritoccano i fatti veri, se ne inventano dei falsi: e poi sono lodi a non finire e rendimenti di grazie a Dio che ci preserva da quelle umilianti avventure.

Intanto si avvicinava il tempo che avevo affrettato col desiderio. Allora mi feci triste. Sentii risvegliarsi e farsi più grandi le ripugnanze. Andavo a confidarle alla superiora o alla madre delle novizie. Sono donne che sanno vendicarsi di tutte le seccature che le provocate. Non crediate infatti che si divertano della parte ipocrita che debbono recitare e delle sciocchezze che sono costrette a ripetervi: alla fine diventa così monotono per loro! Ma poi vi si adattano, e tutto per un migliaio di scudi che entra nelle casse del convento. Ecco l’alto scopo per il quale mentono tutta la vita e preparano a giovani innocenti una disperazione di quaranta, di cinquant’anni, e forse un’infelicità eterna: giacché è certo, signore, che su cento religiose che muoiono prima dei cinquant’anni ve ne sono giusto cento dannate, senza contare quelle che nel frattempo diventano pazze, stupide o furiose.

Un giorno avvenne che una di queste scappò dalla cella nella quale la tenevano rinchiusa. Io la vidi. Ecco l’epoca della mia felicità e della mia sventura, a seconda del modo, signore, mi tratterete. Non ho mai visto niente di più orrido. Era scarmigliata, quasi senza l’abito, e si trascinava dietro catene di ferro; aveva gli occhi smarriti; si strappava i capelli; si percuoteva il petto con i pugni: correva, urlava, rivolgeva a sé e alle altre le più terribili imprecazioni, cercava disperatamente una finestra per buttarsi di sotto. Fui presa dal terrore. Tremavo in tutte le membra. Vidi la mia sorte nel destino di quella sventurata e senza indugio, dentro di me, presi la mia decisione: sarei morta mille volte piuttosto che subire quella sorte.

Intuendo quale effetto quello spettacolo avrebbe prodotto su di me, si sentirono in dovere di prevenirlo. Su quella monaca mi furono dette non so quante ridicole menzogne che si contraddicevano fra loro: che era già un po’ stramba quando era stata accolta in convento; che aveva avuto un grande spavento in un momento delicato; che era vittima di visioni; che si credeva in relazione con gli angeli; che aveva fatto letture perniciose tali da turbarne la mente; che aveva sentito parlare gli innovatori di una morale troppo rigorosa i quali le avevano incusso un tale timore dei 10

giudizi di Dio, che la sua mente già scossa ne era stata sconvolta; che ella non vedeva più che demoni, l’inferno e voragini di fuoco; che tutte ne erano grandemente rattristate; che un caso simile in convento era assolutamente inaudito, e chissà quante altre cose ancora. Naturalmente non mi convinsero. Ad ogni istante mi tornava in mente la mia monaca folle ed io mi ripetevo il giuramento di non pronunciare alcun voto.