Prima la vecchiaia l’avrà presa,
nella nostra dimora, in Argo, lontana dal suo paese,
mentre si affatica al telaio e accorre al mio letto.14
La subirà la giovane donna, la giovane madre, sposa del principe:
E forse un giorno in Argo tu tesserai la tela per un’altra
e porterai l’acqua dalla Messeide o dall’Iperea,
tuo malgrado, sotto la pressione di una dura necessità.15
La subirà il bambino erede dello scettro regale:
Esse di certo se ne andranno nel fondo di vascelli cavi,
io tra loro; tu, figlio mio, o con me
mi seguirai e farai avvilenti lavori,
penando sotto lo sguardo di un padrone senza dolcezza...16
Agli occhi della madre una sorte simile è temibile per il figlio quanto la morte stessa; lo sposo si augura di morire prima di vedervi ridotta la propria moglie; il padre invoca tutti i flagelli del cielo sull’esercito che vi sottomette la figlia. Ma in coloro su cui si abbatte, un destino tanto brutale cancella le maledizioni, le rivolte, i paragoni, le meditazioni sull’avvenire e sul passato, fin quasi la memoria. Non spetta allo schiavo essere fedele alla sua città e ai suoi morti.
Quando soffre o muore uno di quelli che gli hanno fatto perdere tutto, che hanno devastato la sua città, massacrato i suoi cari sotto i suoi occhi, allora lo schiavo piange. Perché no? Soltanto allora gli è concesso il pianto. Gli è persino imposto. Ma nella servitù, le lacrime non sono forse pronte a sgorgare appena possono farlo impunemente?
Ella disse piangendo, e le donne gemevano,
col pretesto di Patroclo, ciascuna per le proprie angosce.17
In nessuna occasione lo schiavo ha licenza di esprimere qualcosa, se non ciò che può compiacere il padrone. Perciò se un sentimento riesce a sorgere in una vita così tetra e animarla un poco, può essere soltanto l’amore per il padrone; ogni altra strada è sbarrata al dono d’amare, così come a un cavallo attaccato al carro le stanghe, le redini, il morso sbarrano tutte le strade tranne una. E se per miracolo appare la speranza di ridiventare un giorno qualcuno per un atto di grazia, quanto grandi saranno la riconoscenza e l’amore per uomini verso i quali un passato ancora molto vicino dovrebbe ispirare orrore:
Il mio sposo, al quale mi avevano data mio padre e mia
madre riverita,
l’ho visto davanti alla mia città trafitto dal bronzo acuto.
I miei tre fratelli, che a me partorì una sola madre,
così cari! incontrarono il giorno fatale.
Ma tu non mi lasciasti – quando il mio sposo dal rapido Achille
fu ucciso, e distrutta la città del divino Mìnete –
versare lacrime; tu promettesti che il divino Achille
mi avrebbe presa per sposa legittima e condotta sulle sue navi
a Ftia, per celebrare il matrimonio fra i Mirmidoni.
Per questo senza tregua ti piango, tu che sempre sei stato dolce.18
Non si può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde l’intera vita interiore. Soltanto quando si presenta la possibilità di mutare destino, ne ritrova un poco. Tale è l’imperio della forza: un imperio potente come quello della natura. Anche la natura, quando entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore e persino il dolore di una madre:
Perché anche Niobe dai bei capelli pensò a mangiare,
ella a cui dodici figli nella sua casa morirono,
sei figlie e sei figli nel fiore degli anni.
Questi Apollo li uccise col suo arco d’argento,
nella sua ira contro Niobe; quelle, Artemide che ama le frecce.
Poiché si era fatta uguale a Latona dalle belle guance,
dicendo «Ella ha due figli; io ne ho generati molti».
E quei due, benché fossero solo due, li fecero tutti morire.
Per nove giorni giacquero nella morte; nessuno venne
a seppellirli. La gente era stata mutata in pietre per volere
di Zeus.
Il decimo giorno furono sepolti dagli dèi del cielo.
Ma ella pensò a mangiare, quando fu stanca delle lacrime.19
Mai è stata espressa con altrettanta amarezza la miseria dell’uomo, che lo rende incapace persino di sentire la propria miseria.
La forza adoperata dagli altri ha sull’anima lo stesso imperio della fame estrema, se consiste in un potere perpetuo di vita e di morte. Ed è un imperio freddo e duro come quello esercitato dalla materia inerte. L’uomo che appare ovunque il più debole è nel cuore delle città altrettanto solo, più solo di quanto possa esserlo l’uomo perso in mezzo a un deserto.
Due vasi stanno sulla soglia di Zeus,
ci sono i doni che egli dona, cattivi nell’uno, buoni nell’altro...20
A chi fa doni funesti, lo espone agli oltraggi;
l’orrendo bisogno lo insegue per la terra divina;
va errando senza rispetto né dagli uomini né dagli dèi.21
La forza schiaccia spietatamente, e altrettanto spietatamente inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell’Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi e supplici da un lato, in vincitori e capi dall’altro; non ce n’è uno che a un certo punto non sia costretto a piegarsi sotto la forza. I soldati, benché liberi e armati, non per questo non subiscono ordini e oltraggi:
Chiunque del popolo vedeva e trovava a urlare
con lo scettro batteva e redarguiva così:
«Miserabile, stattene tranquillo, ascolta parlare gli altri,
tuoi superiori. Tu non hai né coraggio né forza,
non conti nulla in battaglia, nulla nell’assemblea.22
Tersite paga a caro prezzo parole del resto perfettamente ragionevoli, e simili a quelle pronunciate da Achille.
Lo percosse; egli si curvò, le sue lacrime scorsero fitte;
un gonfiore sanguinolento sul suo dorso si formò
sotto lo scettro d’oro; sedette ed ebbe paura.
Dolorante e stupito si asciugava le lacrime.
Gli altri, sebbene in pena, n’ebbero piacere e risero.23
Ma persino Achille, l’eroe fiero, invitto, ci è mostrato fin dall’inizio del poema piangente per l’umiliazione e il dolore impotente, dopo che gli è stata portata via sotto gli occhi la donna di cui avrebbe voluto fare la sua sposa, senza che abbia osato opporvisi.
... Ma Achille
piangendo sedette lontano dai suoi, in disparte,
presso le onde biancheggianti, lo sguardo sul mare vinoso.24
Agamennone ha umiliato di proposito Achille, per mostrare che è lui il padrone:
... Così saprai
che io posso più di te, e ogni altro esiterà
a trattarmi da pari e a tenermi testa.25
Ma qualche giorno dopo il capo supremo piange a sua volta, è costretto ad abbassarsi, a supplicare, e prova il dolore di farlo invano.26
A nessuno dei combattenti è risparmiata la vergogna della paura. Gli eroi tremano come gli altri. Basta una sfida di Ettore per costernare tutti i Greci senza eccezione, a parte Achille e i suoi che sono assenti:
Disse, e tutti tacquero e rimasero in silenzio,
avevano vergogna di rifiutare, paura di accettare.27
Ma appena si fa avanti Aiace, la paura passa dall’altra parte:
I Troiani, un fremito di terrore infiacchì loro le membra;
pure a Ettore il cuore balzò nel petto;
ma non gli era più consentito di tremare né di cercare rifugio...28
Due giorni dopo è Aiace a provare a sua volta il terrore:
Zeus padre, dall’alto, in Aiace fa crescere la paura.
Si arresta, sconvolto, getta sul dorso lo scudo dalle sette pelli,
trema, guarda smarrito la ressa, come una bestia...29
Persino ad Achille una volta capita di tremare e gemere di paura, davanti a un fiume, è vero, non davanti a un uomo. A parte lui, tutti senza distinzione, a un certo punto, ci vengono mostrati vinti. A determinare la vittoria contribuisce non tanto il valore quanto il destino cieco, rappresentato dalla bilancia d’oro di Zeus.30
Allora Zeus padre spiegò la sua bilancia d’oro.
Vi pose due sorti della morte che tutto falcia,
una per i Troiani domatori di cavalli, una per i Greci bardati di bronzo.
La prese nel mezzo: fu il giorno fatale dei Greci ad abbassarsi.31
A forza di essere cieco, il destino stabilisce una sorta di giustizia, cieca anch’essa, che punisce gli uomini armati con la pena del taglione; l’Iliade l’ha formulata molto tempo prima del Vangelo, e quasi negli stessi termini:
Ares è equo, e uccide quelli che uccidono.32
Che tutti siano destinati, nascendo, a subire la violenza, è una verità a cui l’imperio delle circostanze chiude gli spiriti degli uomini. Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma entrambi lo ignorano. Non si credono della stessa specie; il debole non si considera il simile del forte, né è considerato tale. Chi possiede la forza si muove in un ambiente privo di resistenza, senza che nulla, nella materia umana attorno a lui, sia di natura tale da suscitare, tra l’impulso e l’atto, quel breve intervallo in cui risiede il pensiero. Dove il pensiero non ha posto, non ne hanno né la giustizia né la prudenza. Per questo gli uomini armati agiscono duramente e follemente. La loro arma affonda in un nemico disarmato che è alle loro ginocchia; trionfano di un moribondo descrivendogli gli oltraggi che subirà il suo corpo;33 Achille sgozza dodici adolescenti troiani sul rogo di Patroclo con la stessa naturalezza con la quale noi recidiamo fiori per una tomba.34 Mentre usano il loro potere, non sospettano mai che le conseguenze dei loro atti li faranno piegare a loro volta.
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