Quando con una parola si può far tacere, tremare, obbedire un vegliardo,35 si riflette forse che le maledizioni di un sacerdote hanno importanza agli occhi degli àuguri? Ci si astiene forse dal portar via la donna amata da Achille, quando si sa che lei e lui potranno soltanto obbedire?36 Quando Achille gioisce nel vedere in fuga i miserabili Greci,37 può forse pensare che questa fuga, che durerà e finirà a suo piacimento, costerà la vita al suo amico e a lui stesso? Così coloro a cui è stata concessa in sorte la forza periscono per avervi fatto troppo affidamento.

Non possono non perire. Perché essi non considerano la loro forza come una quantità limitata, né i loro rapporti con gli altri come un equilibrio tra forze ineguali. Dato che gli altri uomini non impongono ai loro movimenti quella battuta d’arresto che solo ci consente di avere riguardi per il nostro prossimo, ne concludono che il destino ha dato loro ogni licenza, e nessuna ai loro inferiori. Di conseguenza vanno al di là della forza di cui dispongono. Vanno inevitabilmente al di là, perché ignorano che è limitata. Sono allora abbandonati senza scampo al caso, e le cose non gli obbediscono più. Talvolta il caso li serve, altre volte nuoce loro; ed eccoli esposti nudi alla sventura, senza l’armatura di potenza che proteggeva la loro anima, senza oramai più nulla che li separi dalle lacrime.

Questo castigo di un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu il primo oggetto della meditazione dei Greci. Esso costituisce l’anima dell’epopea; con il nome di Nemesi è il movente delle tragedie di Eschilo; i Pitagorici, Socrate, Platone ne fecero il punto di partenza per pensare l’uomo e l’universo. La nozione è diventata familiare ovunque sia penetrato l’ellenismo. Questa nozione greca sussiste forse, sotto il nome di karma, nei paesi d’Oriente impregnati di buddhismo; ma l’Occidente l’ha perduta e non ha più, in nessuna delle sue lingue, una parola che la esprima; le idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta di vita, ormai hanno solo un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri soltanto davanti alla materia; i Greci furono geometri innanzitutto nell’apprendimento della virtù.

Il corso della guerra, nell’Iliade, consiste unicamente in questo gioco pendolare. Il vincitore del momento si sente invincibile, anche se qualche ora prima ha conosciuto la disfatta; dimentica di servirsi della vittoria come di una cosa destinata a passare. Al termine della prima giornata di combattimento narrata nell’Iliade, i Greci vittoriosi potrebbero ottenere sicuramente l’oggetto dei loro sforzi, cioè Elena e le sue ricchezze; almeno se si ritiene, come fa Omero, che l’armata greca avesse ragione di credere Elena a Troia. I sacerdoti egizi, che dovevano saperlo, assicurarono più tardi a Erodoto che lei si trovava in Egitto.38 In ogni caso, quella sera, i Greci non ne vogliono sapere:

 

«Non si accettino adesso né i beni di Paride,
né Elena; ciascuno vede, anche il più ignorante,
che Troia è ormai sull’orlo della rovina».
Disse; tutti acclamarono tra gli Achei.39

 

Ciò che essi vogliono è niente meno che tutto. Tutte le ricchezze di Troia come bottino, tutti i palazzi, i templi e le case in cenere, tutte le donne e tutti i bambini come schiavi, tutti gli uomini come cadaveri. Dimenticano un dettaglio: non tutto è in loro potere; perché non sono all’interno di Troia. Forse ci saranno domani; forse non ci saranno.

Quello stesso giorno Ettore si lascia andare allo stesso oblio:

 

Perché io so bene questo nelle mie viscere e nel mio cuore;
giorno verrà in cui perirà la santa Ilio,
e Priamo, e la nazione di Priamo, dalla buona lancia.
Ma non penso tanto al dolore che si prepara per i Troiani,
e a Ecuba stessa e a Priamo il re,
e ai miei fratelli che, tanto numerosi e prodi,
cadranno nella polvere sotto i colpi dei nemici,
quanto a te, che uno dei Greci dalla corazza di bronzo
trascinerà in lacrime, togliendoti la libertà.40

.............................................................................................

Ma io, che io sia morto e la terra mi abbia ricoperto
prima di sentirti gridare, di vederti trascinata!41

 

Che cosa non offrirebbe in quel momento per allontanare gli orrori che crede inevitabili. Ma tutto ciò che può offrire è vano. Due giorni dopo i Greci fuggono miseramente, e Agamennone stesso vorrebbe riprendere il mare. Ettore, che cedendo ben poco potrebbe ottenere facilmente la partenza del nemico, non vuole più neppure permettergli di partire a mani vuote:

 

Accendiamo ovunque fuochi e il bagliore s’innalzi al cielo
così che nella notte i Greci dai lunghi capelli
per fuggire non si precipitino sul largo dorso dei mari...42
Che più d’uno anche a casa abbia un colpo da smaltire,43
................................................... affinché tutti temano
di portare ai Troiani domatori di cavalli la guerra lacrimevole.44

 

Il suo desiderio si realizza; i Greci restano; e il giorno dopo, a mezzogiorno, fanno di lui e dei suoi un oggetto pietoso:

 

Essi per la pianura fuggivano come vacche
che un leone caccia, venuto nel mezzo della notte...45
Così li inseguiva il possente Atride Agamennone,
uccidendo senza tregua l’ultimo; essi fuggivano.46

 

Nel corso del pomeriggio Ettore riprende il sopravvento, indietreggia ancora, poi mette i Greci in fuga, poi è respinto da Patroclo e dalle sue truppe fresche. Patroclo, spingendo il proprio vantaggio al di là delle sue forze, finisce col trovarsi esposto, senza armatura e ferito, alla spada di Ettore, e la sera Ettore, vittorioso, accoglie con aspri rimproveri il prudente consiglio di Polidamante:

 

«Ora che ho ricevuto dal figlio di Crono l’astuto
la gloria presso le navi, respingendo al mare i Greci,
imbecille! non proporre tali consigli davanti al popolo.
Nessun Troiano ti ascolterà; io non lo consentirò».47

.................................................................................................................

Così parlò Ettore, e i Troiani l’acclamarono...48

 

Il giorno dopo Ettore è perduto. Achille lo ha fatto retrocedere attraverso tutta la pianura e sta per ucciderlo. Tra i due è sempre stato il più forte in battaglia; tanto più lo è dopo settimane di riposo, trascinato dalla vendetta e dalla vittoria, contro un nemico sfinito! Ecco Ettore solo davanti alle mura di Troia, completamente solo, ad attendere la morte e a tentare di persuadere la sua anima ad affrontarla.

 

Ahimè, se mi ritiro dietro la porta e le mura,
Polidamante per primo mi coprirà di vergogna...49
Ora che ho perduto i miei con la mia follia,
temo i Troiani e le Troiane dai lunghi veli
e sentir dire da meno prodi di me:
«Ettore, troppo fidando nella sua forza, ha perduto il paese»...50
Ma se deponessi il mio scudo convesso,
il mio buon elmo e, appoggiata la lancia alle mura,
andassi verso l’illustre Achille, incontro a lui?...51
Ma perché dunque il cuore mi dà tali consigli?
Non mi accosterò a lui, non avrebbe pietà,
nessun riguardo; mi ucciderebbe, se fossi così nudo,
come una donna...52

 

Ettore non sfugge a nessuno dei dolori e delle vergogne che spettano agli sventurati. Solo, spogliato di ogni prestigio della forza, il coraggio che gli ha consentito di restare fuori delle mura non lo preserva dalla fuga:

 

Ettore, vedendolo, fu preso da tremito. Non poté risolversi
a rimanere...53
... Non per una pecora o per una pelle di bue
essi si sforzano, ricompense ordinarie alla corsa;
è per una vita che corrono, quella di Ettore domatore di cavalli.54

 

Ferito a morte, egli accresce il trionfo del vincitore con suppliche vane:

 

Ti imploro per la tua vita, per le tue ginocchia, per i tuoi genitori...55

 

Ma gli uditori dell’Iliade sapevano che la morte di Ettore avrebbe dato breve gioia ad Achille, e la morte di Achille breve gioia ai Troiani,56 e la distruzione di Troia breve gioia agli Achei.

 

Così la violenza schiaccia quelli che tocca. Essa finisce con l’apparire esterna a chi la esercita e a chi la subisce; nasce allora l’idea di un destino sotto il quale i carnefici e le vittime sono parimenti innocenti, i vincitori e i vinti fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di una sventura per il vincitore come il vincitore per il vinto.

 

Un solo figlio gli è nato, per una vita breve, e per di più
egli invecchia senza le mie cure, perché lontano dalla patria,
io resto davanti a Troia a nuocere a te e ai tuoi figli.57

 

Un uso moderato della forza, che solo permetterebbe di sfuggire all’ingranaggio, richiederebbe una virtù più che umana, tanto rara quanto una costante dignità nella debolezza. D’altronde neppure la moderazione è sempre senza pericolo; perché il prestigio, che per più di tre quarti costituisce la forza, è fatto innanzitutto della superba indifferenza del forte per i deboli, indifferenza talmente contagiosa che si trasmette a coloro che ne sono l’oggetto.