La possibilità di una situazione così violenta è inconcepibile finché non ci si è dentro, e quando ci si è dentro è inconcepibile che abbia fine.64 Così non si fa nulla perché finisca. Le braccia non possono smettere di tenere e maneggiare le armi in presenza di un nemico armato; lo spirito dovrebbe ricercare una via d’uscita; ma ha perduto ogni capacità di escogitare qualcosa a tale scopo. È interamente occupato a farsi violenza. Si tratti di servitù o di guerra, sempre, tra gli uomini, le sventure intollerabili durano per via del loro stesso peso, e così dall’esterno sembrano facili da sopportare. Durano perché privano delle risorse necessarie a uscirne.

Nondimeno, l’anima soggetta alla guerra brama la liberazione; ma la liberazione stessa le appare sotto una forma tragica, estrema, sotto la forma della distruzione. Una fine moderata, ragionevole, metterebbe a nudo per il pensiero una sventura così violenta da non poter essere sopportata neppure come ricordo. Il terrore, il dolore, lo sfinimento, i massacri, i compagni distrutti: non si riesce a credere che tutto questo possa smettere di mordere l’anima se l’ebbrezza della forza non è venuta a sommergerlo. L’idea che uno sforzo senza limiti possa avere procurato soltanto un profitto nullo o limitato fa male.

 

Che? Si lascerà Priamo e i Troiani vantarsi
dell’Argiva Elena, per cui tanti Greci
davanti a Troia sono morti lontano dalla terra natale?...65
Che? Desideri che la città di Troia dalle ampie vie
la abbandoniamo, per cui soffrimmo tante miserie?66

 

Che importa di Elena a Ulisse? Che importa la stessa Troia, piena di ricchezze che non compenseranno la rovina di Itaca? Troia ed Elena importano soltanto come cause del sangue e delle lacrime dei Greci; solo impadronendosi di esse si possono padroneggiare orrendi ricordi. L’anima che l’esistenza di un nemico ha costretto a distruggere dentro di sé ciò che vi aveva posto la natura crede di poter guarire soltanto con la distruzione del nemico. Allo stesso tempo, la morte dei compagni amati suscita una tetra emulazione di morte:

 

Ah! morire subito se il mio amico ha dovuto
soccombere senza il mio aiuto! Lontano dalla patria
egli è morto, e non ha avuto me per scansare la morte...67
Ora vado a cercare l’uccisore di una testa tanto cara,
Ettore; la morte io la riceverò quando
Zeus vorrà compierla, e tutti gli altri dèi.68

 

La stessa disperazione spinge allora a perire e a uccidere:

 

So bene che il mio destino è di perire qui,
lontano dal padre e dalla madre amati; ma intanto
non smetterò finché i Troiani non siano sazi di guerra.69

 

L’uomo abitato da questo duplice bisogno di morte appartiene, finché non sia diventato altro, a una differente razza di viventi.

Quale eco può avere in tali cuori la timida aspirazione alla vita, quando il vinto supplica che gli si permetta di vedere ancora il giorno? Già il possesso delle armi da una parte, la privazione delle armi dall’altra tolgono a una vita minacciata quasi ogni importanza; e chi ha distrutto in se stesso il pensiero che è dolce vedere la luce, come potrebbe rispettarlo in quel lamento umile e vano?

 

Sono alle tue ginocchia, Achille; abbi riguardo di me, abbi pietà;
Sono qui come un supplice, o figlio di Zeus, degno di riguardo.
Poiché da te per primo mangiai il pane di Demetra,
il giorno in cui mi hai preso nella mia vigna ben coltivata.
E mi hai venduto, mandandomi lontano da mio padre e dai miei,
a Lemno santa; ti dettero per me un’ecatombe.
Fui riscattato per tre volte tanto; questa aurora è per me
oggi la dodicesima, da quando sono tornato a Ilio,
dopo tanti dolori. Eccomi di nuovo nelle tue mani
per un destino funesto. Devo essere odioso a Zeus padre
che di nuovo mi consegna a te; a vita breve mia madre
mi ha generato, Laotoe, figlia del vecchio Alte.70

 

Quale risposta accoglie quella tenue speranza!

 

Andiamo, amico, muori anche tu! Perché ti lamenti tanto?
È morto anche Patroclo, che valeva tanto più di te.
E io stesso, non vedi come sono bello e grande?
Sono di nobile razza, una dea è mia madre;
ma anche su di me sono la morte e il duro destino.
Sarà all’alba, o alla sera, o al mezzo il giorno
quando anche a me con le armi si strapperà la vita...71

 

Quando ci si è dovuti mutilare di ogni aspirazione a vivere, per rispettare la vita degli altri occorre uno sforzo di generosità da spezzare il cuore. Tra i guerrieri di Omero, nessuno si può reputare capace di un tale sforzo, se non forse colui che in certo modo si trova al centro del poema, Patroclo, che «seppe essere dolce con tutti»,72 e che nell’Iliade non commette niente di brutale o di crudele. Ma quanti uomini conosciamo, in molte migliaia d’anni di storia, che abbiano dato prova di una generosità così divina? A stento se ne possono nominare due o tre. Mancando di tale generosità, il soldato vincitore è come un flagello della natura; posseduto dalla guerra, è diventato una cosa al pari dello schiavo, sebbene in tutt’altra maniera, e su di lui, come sulla materia, le parole sono senza potere. L’uno e l’altro, a contatto con la forza, ne subiscono l’effetto infallibile, che rende quelli che tocca o muti o sordi.

Tale è la natura della forza. Il potere che essa possiede di trasformare gli uomini in cose è duplice, e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica in modo diverso, ma in ugual misura, le anime di coloro che la subiscono e di coloro che la maneggiano. Questa proprietà raggiunge il più alto grado in mezzo alle armi, a partire dal momento in cui una battaglia si orienta verso una decisione. Le battaglie non si decidono tra uomini che calcolano, combinano, prendono una risoluzione e la eseguono, ma tra uomini spogliati di queste facoltà, trasformati, caduti al livello o della materia inerte, che è solo passività, o delle forze cieche, che sono solo impeto. È questo il segreto ultimo della guerra, e l’Iliade lo esprime con i suoi paragoni, in cui i guerrieri appaiono simili ora all’incendio, all’inondazione, al vento, alle bestie feroci, a una qualsiasi causa cieca di disastro, ora agli animali paurosi, agli alberi, all’acqua, alla sabbia, a tutto ciò che è mosso dalla violenza di forze esterne. Greci e Troiani, da un giorno all’altro, a volte da un’ora all’altra, subiscono di volta in volta l’una e l’altra trasmutazione:

 

Come vacche da un leone feroce assalite
che in una prateria paludosa e vasta pascolano
a migliaia... fuggono tutte atterrite; così allora gli Achei
presi da panico furono messi in fuga da Ettore e da Zeus padre,
tutti...73
Come quando il fuoco distruttore si abbatte sul fitto
di un bosco;
per ogni dove turbinando il vento lo porta; allora i tronchi,
divelti, cadono sotto la pressione del fuoco violento;
così l’Atride Agamennone faceva cadere le teste
dei Troiani in fuga...74

 

L’arte della guerra altro non è che l’arte di provocare siffatte trasformazioni, e l’attrezzatura, i modi, la morte stessa inflitta al nemico sono solo mezzi in vista di questo effetto; il suo vero oggetto è l’anima stessa dei combattenti. Ma queste trasformazioni costituiscono sempre un mistero, e ne sono autori gli dèi stessi, essi che toccano l’immaginazione degli uomini. Ad ogni modo, questa duplice proprietà di pietrificazione è essenziale alla forza, e un’anima posta a contatto con la forza non vi sfugge se non per una specie di miracolo. Tali miracoli sono rari e di breve durata.

La leggerezza di coloro che maneggiano senza rispetto gli uomini e le cose che hanno o credono di avere alla loro mercé, la disperazione che costringe il soldato a distruggere, l’annichilimento dello schiavo o del vinto, i massacri, tutto contribuisce a creare un quadro uniforme d’orrore. La forza ne è l’unico eroe. Ne risulterebbe una tetra monotonia se non ci fossero, qui e là, momenti luminosi; momenti brevi e divini in cui gli uomini hanno un’anima. L’anima che si risveglia così un istante, per perdersi subito dopo sotto l’imperio della forza, si risveglia pura e intatta; non vi appare alcun sentimento ambiguo, complicato o torbido; soltanto il coraggio e l’amore vi hanno posto. Talvolta un uomo trova così la sua anima mentre delibera con se stesso, quando cerca, come Ettore davanti a Troia, senza l’aiuto degli dèi o degli uomini, di far fronte da solo al destino. Gli altri momenti in cui gli uomini trovano la propria anima sono quelli in cui amano; quasi nessuna forma pura dell’amore tra gli uomini è assente dall’Iliade.

La tradizione dell’ospitalità, anche dopo diverse generazioni, prevale sull’accecamento della battaglia:

 

Così io sono per te un ospite amato nell’Argolide...
Evitiamo le lance l’uno dell’altro anche nella mischia.75

 

L’amore del figlio per i genitori, del padre, della madre per i figli, è continuamente evocato in modo tanto conciso quanto toccante:

 

Rispose Teti, versando lacrime:

 

«Mi sei nato a una breve vita, figlio mio, per come mi parli...».76

 

Parimenti l’amore fraterno:

 

I miei tre fratelli, che a me partorì una sola madre,
così cari...77

 

L’amore coniugale, condannato alla sventura, è di una purezza sorprendente.