Le Chansons de geste non hanno saputo raggiungere la grandezza per mancanza d’equità; nella Chanson de Roland la morte di un nemico non è sentita dall’autore e dal lettore come la morte di Rolando.

La tragedia attica, almeno quella di Eschilo e di Sofocle, è la vera continuazione dell’epopea. Il pensiero della giustizia la illumina senza mai intervenirvi; la forza vi appare nella sua fredda durezza, sempre accompagnata dagli effetti funesti ai quali non sfugge né chi ne fa uso né chi la soffre; l’umiliazione dell’anima sotto la costrizione non vi è mascherata, né avvolta di facile pietà, né additata al disprezzo; più di un essere ferito dalla degradazione della sventura è offerto all’ammirazione. Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade ne è la prima; lo spirito della Grecia vi traspare non soltanto perché vi si ordina di ricercare, a esclusione di ogni altro bene, «il regno di Dio e la giustizia celeste»,95 ma anche perché vi è esposta la miseria umana, e questo in un essere ad un tempo divino e umano. I racconti della Passione mostrano che uno spirito divino, unito alla carne, è alterato dalla sventura, trema davanti alla sofferenza e alla morte, si sente, al fondo dello sconforto, separato dagli uomini e da Dio. Il sentimento della miseria umana dà loro quell’accento di semplicità che è il marchio del genio greco, e che costituisce tutto il pregio della tragedia greca e dell’Iliade. Certe parole rendono un suono stranamente prossimo a quello dell’epopea, e l’adolescente troiano inviato all’Ade sebbene non volesse andarvi torna alla memoria quando il Cristo dice a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vuoi andare».96 Questo accento non è separabile dal pensiero che ispira il Vangelo; perché il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a che punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana in loro potere non può considerare come suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. La diversità delle costrizioni che pesano sugli uomini fa nascere l’illusione che ci siano tra loro specie distinte che non possono comunicare. È possibile amare ed essere giusti solo se si conosce l’imperio della forza e si è capaci di non rispettarlo.

I rapporti tra l’anima umana e il destino, in quale misura ogni anima modella la propria sorte, ciò che un’impietosa necessità trasforma in un’anima qualsiasi secondo il mutare della sorte, ciò che per effetto della virtù e della grazia può restare intatto: è una materia in cui la menzogna è facile e seducente. L’orgoglio, l’umiliazione, l’odio, il disprezzo, l’indifferenza, il desiderio di dimenticare o d’ignorare, tutto contribuisce a offrirne la tentazione. In particolare, non c’è cosa più rara di una giusta espressione della sventura; dipingendola, si finge quasi sempre di credere o che l’abbassamento sia una vocazione innata dello sventurato, o che un’anima possa reggere la sventura senza riceverne il marchio, senza che quella modifichi tutti i pensieri in un modo che è soltanto suo. I Greci, il più delle volte, ebbero la forza d’animo che permette di non mentirsi; ne furono ricompensati e seppero raggiungere in ogni cosa il più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità. Ma lo spirito che si è trasmesso dall’Iliade al Vangelo passando per i pensatori e i poeti tragici non ha praticamente superato i confini della civiltà greca; e da quando la Grecia è stata distrutta ne sono rimasti soltanto dei riflessi.

Sia i Romani sia gli Ebrei hanno creduto di essere sottratti alla comune miseria umana, i primi in quanto nazione scelta dal destino per dominare il mondo, i secondi per il favore del loro Dio e nella misura esatta in cui gli obbedivano. I Romani disprezzavano gli stranieri, i nemici, i vinti, i loro sudditi, i loro schiavi; perciò non ebbero né epopee né tragedie. Sostituivano le tragedie con i giochi del circo. Gli Ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato e di conseguenza un legittimo motivo di disprezzo; consideravano i loro nemici vinti come se fossero in orrore a Dio stesso e condannati a espiare dei crimini, cosa che rendeva lecita e persino indispensabile la crudeltà. Così nessun testo dell’Antico Testamento ha un accento paragonabile a quello dell’epopea greca, se non forse alcune parti del poema di Giobbe. Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati con gli atti e con le parole, citati ogni volta che c’era da giustificare un crimine, nel corso di venti secoli di cristianesimo.

Inoltre lo spirito del Vangelo non si è trasmesso puro alle successive generazioni cristiane. Fin dalle origini si è creduto di vedere un segno della grazia nei martiri per il fatto che subivano le sofferenze e la morte con gioia; come se gli effetti della grazia potessero essere maggiori negli uomini che nel Cristo. Coloro che pensano che Dio stesso, una volta diventato uomo, non abbia potuto fissare lo sguardo sul rigore del destino senza tremarne di angoscia avrebbero dovuto comprendere che possono in apparenza sollevarsi al di sopra della miseria umana soltanto gli uomini che mascherano ai propri occhi il rigore del destino, con l’aiuto dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo che non è protetto dall’armatura di una menzogna non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questo colpo lo corrompa, ma non può impedire la ferita. Per averlo troppo dimenticato, la tradizione cristiana solo molto di rado ha saputo ritrovare la semplicità che rende straziante ogni frase dei racconti della Passione. D’altra parte, il costume delle conversioni forzate ha velato gli effetti della forza sull’anima di coloro che la maneggiano.

Malgrado la breve ebbrezza causata dalla riscoperta delle lettere greche durante il Rinascimento, per venti secoli il genio della Grecia non è resuscitato. Qualcosa ne è apparso in Villon, Shakespeare, Cervantes, Molière, e una volta in Racine.97 La miseria umana è messa a nudo, a proposito dell’amore, nell’École des Femmes, in Phèdre;98 strano secolo d’altronde, nel quale, contrariamente all’età epica, non era consentito percepire la miseria dell’uomo altrimenti che nell’amore, mentre gli effetti della forza nella guerra e nella politica dovevano essere sempre avvolti di gloria.99 Si potrebbero forse citare anche altri nomi. Ma nulla di quanto hanno prodotto i popoli d’Europa vale il primo poema conosciuto che sia apparso presso uno di essi. Ritroveranno forse il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, che mai si deve ammirare la forza, né odiare i nemici, né disprezzare gli sventurati. È improbabile che ciò accadrà presto.

III
ERACLITO

<FRAMMENTI DI ERACLITO>1

1. Quanto al λóγóς, il λóγóς eternamente reale, gli uomini sono a questo riguardo privi di intendimento, finché non se ne sia parlato loro e quando si comincia a parlarne. Benché tutte le cose avvengano in conformità al λóγóς, sembra che non ne abbiano fatto esperienza.