Spiega freddamente alla sorella che né l’una né l’altra hanno più niente da perdere. L’unico futuro che le aspetta è di invecchiare miseramente, senza affetti, senza marito, senza famiglia, senza risorse, dipendendo sempre dalle elemosine di Egisto e obbedendo ai suoi ordini. È meglio rischiare il tutto per tutto. Elettra chiede alla sorella di aiutarla.
Crisòtemi ha paura. Ci sono persone che anche quando non hanno quasi più nulla da perdere paventano ancor più di perdere il poco che è lasciato loro. Crisòtemi è così. Non comprende come si possa osare parlare di resistenza quando si è deboli e sottomessi a qualcuno più forte. Teme che siano state udite e che le si condanni a morte, forse persino alla morte lenta per tortura. Questa paura molto comprensibile appare a Elettra un segno di viltà. Le due sorelle si lasciano irritate l’una con l’altra.
A questo punto compare Oreste. Porta l’urna che deve far credere a tutti che è morto. Il fratello e la sorella si trovano così faccia a faccia. Ma non si riconoscono. Oreste era un bambino quando è andato via; ora è un uomo. Elettra era una ragazza bella e fresca; la miseria ha fatto di lei un essere senza età, irriconoscibile, sul cui viso si può leggere soltanto lo sconforto.
Per Elettra la vista di quell’urna che crede contenga le ceneri del fratello è come un colpo al cuore. Supplica che gliela si dia per qualche istante. La tiene tra le mani, le parla come si parla ai morti quando si è troppo sventurati:
Resti del corpo di mio fratello! Non come avevo sperato,
non come ti ho visto partire tu ritorni.
Tu non sei più nulla: come tale ti soppeso nelle mie mani;
e io ti ho visto partire, bambino, risplendente di vigore.33
Per un momento si perde nell’evocazione della felicità passata: l’infanzia di Oreste, le dolci cure di cui lei lo circondava, la reciproca tenerezza. Ma subito il dolore ritorna più forte:
Ora tutto questo è cancellato in un sol giorno
con te morto. Perché tutto hai portato via
con te come una tempesta...34
Di nuovo cade in contemplazione dell’urna:
È dunque così che ti riportano a me. Invece delle tue sembianze
amate, della cenere e un’ombra vana...35
Ah! tu hai causato la mia perdita, amato fratello.
Ora accoglimi dunque nella tua dimora...36
Poiché coloro che sono morti, io non vedo che soffrano.37
Alcune donne della città, che si trovano lì, richiamano Elettra alla ragione:
Tu sei nata da un padre mortale, Elettra, placati;
anche Oreste era mortale. Non bisogna piangere troppo.38
Ma mentre Elettra piangeva così su una sventura immaginaria, Oreste ha cominciato a soffrire crudelmente di una sventura troppo reale. Quest’essere miserabile che gli sta davanti, questa giovane coperta di stracci, emaciata, già invecchiata, avvizzita per la solitudine e le miserie: sentendola parlare, ha capito che è sua sorella. Non può trattenere parole dolenti:
Mio Dio, quale pietosa miseria ho sotto gli occhi!39
Questo corpo, vergognosamente, criminalmente fatto deperire.40
Elettra non capisce:
È forse per me, straniero, che ti affliggi?41
Come tutti gli sventurati, ormai da tempo trova del tutto naturale che nessuno al mondo presti attenzione alla sua sofferenza. Le ci vuole qualche minuto per comprendere che c’è lì qualcuno che s’interessa veramente a lei. Ma allora si lascia subito andare alla dolcezza delle confidenze, che tanto conforto danno al cuore degli sventurati. Racconta che è costretta a vivere con gli assassini di suo padre, a servirli.
Come ti si costringe? Con le percosse? Con la fame?
– Le percosse, la fame, tutti i dolori possibili.42
– Sventurata! Il tuo aspetto mi fa talmente pietà!
– Sei il solo, sappilo, che abbia mai avuto pietà di me.43
Oreste non si trattiene più. Dirà tutto. Ma prima vuole riprendere l’urna, che Elettra continua a tenere stretta al cuore. Elettra si dibatte. Oreste deve confessare che l’urna è vuota.
Le ceneri di Oreste non sono lì.
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