Poi mi mossi e girai fra i tavolini finché incontrai Doro. “Andiamo a bere un bicchierino al banco?” gli dissi.
“Tanto per regolarmi,” cominciai quando fummo soli, “posso raccontarlo a tua moglie che per non farci legnare abbiamo dovuto scappare il mattino dopo?”
Stavamo giusto ridendo, e Doro rispose con un mezzo sogghigno: “Te l'ha chiesto lei?”
“No, te lo chiedo io.”
“Figurati. Raccontale quello che vuoi.”
“Ma non siete in rotta?”
Doro alzò il bicchierino, fissandomi sovrapensiero. “No,” disse calmo.
“E come va allora,” dissi, “che ogni tanto Clelia ti cerca con due occhi spaventati, che sembra un cane? Ha tutta l'aria di una donna che sia stata bastonata. L'hai bastonata?”
In quel momento la voce di Clelia, che volteggiava sulla pista con un tale, ci gridò: “Ubriaconi,” e vedemmo la sue mano agitarsi in saluto. Doro la seguì con gli occhi, annuendole assorto, finché non scomparve dietro la schiena del ballerino.
“Come vedi è contenta,” disse piano. “Perché dovrei bastonarla? Andiamo d'accordo più di tanti altri. Non mi ha mai detto una parola villana. Andiamo d'accordo anche nei divertimenti, che è la cosa più difficile.”
“Lo so che lei con te va d'accordo.” Mi fermai.
Doro non diceva niente. Guardò il bicchiere con aria mortificata, lo guardò a testa bassa tenendolo a mezza distanza, poi lo vuotò di sfuggita, semivolgendosi come quando ci si schiarisce la gola in società.
“Il male,” disse con tono di concludere, incamminandosi, “è che si ha troppa confidenza. Uno dice certe cose soltanto per far piacere all'altro.”
Clelia e Guido s'avvicinavano a noi fra i tavolini.
“Parli per me?” dissi.
“Anche per te,” borbottò Doro.
IV
Avevo temuto venendo al mare di dover trascorrere giornate formicolanti di sconosciuti, e serrar mani e ringraziare e intavolare conversazioni con un lavoro da Sisifo. Invece, salvo le inevitabili serate in crocchio, Clelia e Doro vivevano con una certa calma. Per esempio, ogni sera cenavo alla villa, e gli amici giungevano soltanto col buio. Il nostro terzetto non mancava di cordialità, e per quanto tutti e tre nascondessimo dietro la fronte pensieri inquieti, discorrevamo di molte cose col cuore in mano.
Ebbi presto qualche mia avventura da raccontare - pettegolezzi della trattoria dove facevo colazione, pensieri bizzarri e casi strani, quei casi che il disordine della vita di mare favorisce. Quella voce che avevo sentito squillare tra le inferriate la prima sera ch'ero sceso di casa, già l'indomani mi si era fatta conoscere. Mi venne incontro sulla spiaggia un giovanotto arso di sole che mi salutò graziosamente con un cenno della mano e passò oltre. Lo riconobbi ch'era già passato. Niente più che un mio scolaro dell'anno prima, che un bel giorno senz'avvertire era mancato alla solita lezione nel mio studio, e non l'avevo veduto mai più. Quella stessa mattina mi stavo arrostendo al sole, quando mi stramazzò accanto un corpo nero e vigoroso: di nuovo lui. Sorrise mostrandomi i denti e mi chiese se facevo i bagni. Gli risposi senza levare il capo: per caso ero lontano dall'ombrellone dei miei amici, e avevo sperato di star solo. Lui con semplicità mi spiegò ch'era venuto per puro caso su quella costa e che si trovava bene. Non parlò della faccenda delle lezioni. Per dispetto gli dissi che la sera prima avevo sentito i suoi litigare. Lui di nuovo sorrise e mi rispose ch'era impossibile perché i suoi non c'erano. Ma riconobbe di abitare in una strada con l'ulivo. E rialzandosi per andarsene parlò di compagnia che lo attendeva. Quella sera sporsi il capo nel pianterreno, donde veniva uno stridente odor di fritto, e ci vidi dei bambini, una donna col fazzoletto in capo, un letto sfatto e dei fornelli. Siccome mi videro, chiesi di lui, e la donna - la mia stessa padrona -venne sulla porta e di chiacchiera in chiacchiera benedì il cielo ch'io conoscessi il suo inquilino perché ormai s'era pentita di averlo accettato e voleva scrivere alla famiglia - gente così buona che mandava al mare il figliuolo per svagarlo, e lui soltanto la sera prima s'era portata nella stanza una donna. “Sono cose,” disse.
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