“Che stupido,” rideva Ginetta. “Noi scherziamo sempre.”
Le svolte della strada fra i pini, dove si affacciava il mare, mescolavano per me alle volubili parole di Ginetta un umore saporoso, una leggera vertigine. Pareva che il mare, giù in fondo, ci attirasse. Anche Doro camminava più sciolto. Tra poco era sera.
“Povera Mara,” disse Ginetta. “Quando potrà nuotare?”
Quella sera trovammo deserto l'ombrellone, e già spopolata la spiaggia. Entrammo in acqua io e Ginetta, e nuotammo a fianco a fianco come in gara, non osando staccarci nel silenzio del mare vuoto. Ritornammo senza dire parole, e vedevo tra le bracciate l'alta costa dei pini donde eravamo scesi poco prima. Toccammo fondo; Ginetta uscì luccicante come un pesce e se ne andò alla cabina. Doro finiva di fumare la sigaretta che aveva acceso aspettandomi.
Salimmo insieme alla villa dove Clelia era già andata. Quella sera, a cena, sentii che Mara era tornata a Sestri con Guido e che saremmo stati soli e senz'automobile per qualche giorno. La notizia mi fece piacere, perché amavo passare la notte in calma, discorrendo.
“Quella scema,” disse Clelia. “Poteva aspettare la fine della stagione per rompersi il braccio.”
“Ginetta dice che egoisti siamo noi uomini,” osservò Doro.
“Le piace Ginetta?” mi chiese Clelia.
“È una ragazza piena di salute,” dissi. “Perché? C'è dell'altro?”
“Oh niente. Doro sostiene che quand'ero ragazza le somigliavo.”
Sentenziai allora che tutte le ragazze si somigliano, e che bisogna vederle donne per giudicarle.
Clelia alzò le spalle. “Chi sa come mi giudica,” brontolò.
“Manco di qualche elemento,” dissi. “Soltanto Doro potrebbe giudicarla.”
Doro prese inaspettatamente a scherzare e disse che un uomo innamorato ha perso il lume degli occhi e il suo giudizio non conta. Parlò che sembrava Guido. Lo adocchiai stupefatto. Il bello era che Clelia non ci badava e alzò di nuovo le spalle brontolando che eravamo tutti gli stessi.
“Che succede?” esclamai ridendo.
Niente succedeva, e Clelia con voce piccina cominciò a lagnarsi che si sentiva un vecchio rudere e che a pensare alla sua giovinezza, anzi all'infanzia, quand'era scolara e quand'era andata al primo ballo e quando aveva messo la prima volta le calze lunghe, le venivano i brividi. Doro ascoltò sovrapensiero, sorridendo appena. “Ero una bambina troppo giudiziosa,” diceva Clelia desolate. “Pensavo che l'indomani se papà fosse diventato povero all'improvviso e si fosse incendiata la cucina, non avremmo più avuto da mangiare. Mi ero fatto nel giardino un ripostiglio di noci e di fichi secchi, e aspettavo che diventassimo poveri per offrire a papà le mie provviste. Avrei detto al papà e alla mamma: "Non disperatevi. Clelia pensa a tutto. L'avete castigata, ma lei adesso vi perdona e non fatelo più". Com'ero scema.”
“Tutti siamo scemi a quel tempo,” dissi.
“Credevo a tutto quello che mi dicevano. Non osavo mettere la faccia tra le sbarre del cancello perché poteva passare qualcuno e cavarmi gli occhi. Eppure dal cancello si vedeva anche il mare e non avevo altra distrazione, perché mi tenevano sempre rinchiusa e io stavo sulla panchina e ascoltavo i passanti, ascoltavo i rumori.
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