E stavano bene. E forse stanno ancora bene.”

Doro parlava con un tono sarcastico, e parlando girava gli occhi sulla collina.

“L'hai mai raccontata questa storia a Clelia?”

Doro non mi rispose; fece la faccia di chi pensa ad altro.

“Clelia è tipo da divertirsi a sentirla,” continua “Tanto più che non è tua sorella.”

Ma in risposta non ebbi che un sorriso. Doro, quando voleva, sorrideva come un ragazzo. Si fermò posandomi la mano sulla spalla. “Ti ho mai detto che un anno ho portato qui Clelia?” disse. Allora mi fermai anch'io. Non dissi nulla e aspettavo.

Doro riprese: “Credevo di avertelo detto. Me l'aveva chiesto lei stessa. Ci passammo in macchina con degli amici. Eravamo sempre in gita a quei tempi”.

Guardò me, e guardò dietro me la collina. Fece per rimettersi a camminare. Mi mossi anch'io.

“No che non me l'hai detto,” borbottai. “Quand'è stato?”

“Mica molto,” disse Doro. “L'altr'anno.” “E te l'ha chiesto lei?” Doro fece di sl col capo. “Però hai perduto troppo tempo,” dissi. “Ce la dovevi portar prima. Perché quest'anno l'hai lasciata al mare?”

Ma Doro sorrideva già in quel suo modo. M'indicò con gli occhi la costa ripida della più alta collina e non rispose. Salimmo taciturni fin che ci fu luce, e di lassù ci fermammo a dare un'occhiata alla pianura, dove ci parve di scorgere nella voragine del pulviscolo anche il ciuffetto scuro della villa proibita.

Quando fu notte, all'albergo cominciarono a spuntare facce cordiali. C'era il biliardo e si giocava. Coetanei di Doro - certi impiegati e un manovale tutto schizzato di calce - lo riconobbero e gli fecero festa. Poi venne anche un signore anziano, con la catena d'oro al gilè, che si disse felice di fare la mia conoscenza. Mentre Doro giocava e motteggiava, questo vecchio prese il caffè con la grappa, e confidenzialmente, piegandosi sul tavolino, si andò informando degli affari di Doro e mi raccontò tutta la storia della villa comprata da un certo Matteo quand'era un semplice fienile, con tutti i beni circostanti, e questo Matteo era non so che antenato, ma poi il nonno di Doro aveva cominciato la speculazione di vendere a pezzi il terreno per costruire la case, e alla fine era rimasta quella gran villa senza più beni, e lui l'aveva predetto all'amico, ch'era il padre di Doro, che un bel giorno i figlioli avrebbero venduto anche la case lasciando lui nel cimitero come un vagabondo. Parlava un bonario italiano insaporito di dialetto; non so perché, mi misi in mente che fosse notaio. Poi vennero bottiglie, e Doro beveva in piedi, appoggiato alla stecca, ammiccando a questo e a quello. A una cert'ora eravamo rimasti il manovale che si chiamava Ginio, noi due e un ragazzone in cravatta rossa che Doro vedeva per la prima volta. Uscimmo dall'albergo a fare quattro passi e la luna ci mostrò la strada. Sotto la luna diventammo tutti come il manovale che gli schizzi di calce vestivano in maschera. Doro parlava il suo dialetto; io li capivo ma non sapevo rispondere con scioltezza, e questo ci faceva ridere. La luna bagnava ogni cosa, fin le grandi colline, in un vapore trasparente che velava, cancellava ogni ricordo del giorno.