“Qui non si può cantare, ma loro una volta cantavano. Andiamo da Rosa.” E ci andava senz'altro, senonché il giovanotto mi prese il braccio e mi soffiò costernato: “Guai al mondo. Ci dorme il brigadiere”. Non sapevo troppo che fare, ma raggiunsi Doro e lo tenni a fatica per il muscolo grosso del braccio. “Non mescolare vino e donne, Doro,” gli gridai nella foga. “Ricordati che siamo signori.”

Ma Ginio sopraggiunse deciso, e ammise che quelle tre figliole erano ingrassate, però noi non si andava per questo ma soltanto per cantare una volta, e se anche erano grasse, che voleva dire? una donna dev'essere ben fatta; e si dibatteva e tirava Doro e diceva: “Vedrai che Rosa si ricorda”. Eravamo sullo stradone, sotto la luna, tutti accaniti intorno a Doro, stranamente irresoluto.

La vinse Rosa, perché il giovanotto disse inviperito: “Ma non ti accorgi che non ti vogliono perché sei sporco di calcina?” e si prese in faccia uno sgrugnone che lo spostò di tre passi e lo fece sputare per terra. Allora s'eclissò come d'incanto, e un bel momento lo sentimmo gridare nel silenzio della luna: “Grazie, ingegnere. Lo dirò al padre di Ginio”.

Doro e Ginio s'eran già incamminati, e io con loro. Non sapevo dir nulla, perché anch'io tentennavo. Se avevo un rimpianto, era soltanto che quello sporco d'un manovale mi batteva davanti a Doro per intensità di ricordi comuni, che rievocavano animatamente camminando verso il paese. Parlavano a vanvera, e quel grosso dialetto bastava per ridare a Doro il sapore autentico della sua vita, del vino della carne dell'allegria in cui era nato. Mi sentivo intruso, inetto. Presi il braccio di Doro e mi cacciai innanzi, emettendo un grugnito. Dopotutto, avevo in corpo lo stesso vino.

Quel che facemmo sotto quelle finestre fu temerario. Capivo che in qualche angolo della piazzetta doveva essere appostato quel Biagio, e lo dissi a Doro che nemmeno mi ascoltava. Sulle prime fu Ginio che, ridendo quel suo sogghigno da scemo, bussò alla porticina tarlata, sotto la luna. Parlavamo in un soffio, divertiti e smaniosi. Ma nessuno rispondeva, e le finestre rimasero chiuse. Allora Doro cominciò a tossire, poi Ginio a raccattare sassi e a tirarli lassù, poi litigammo perché dissi che rompeva i vetri, e finalmente Doro ruppe ogni indugio lanciando un urlo spaventoso, bestiale, modulato come quelli che gli ubriachi delle campagne fanno seguire ai loro cori. Tutti i silenzi della luna parvero rabbrividirne. Vari cani remoti, da chi sa che cortili, ci risposero furenti.

Sbatacchiarono porte e cigolarono imposte. Anche Ginio cominciò a berciare, qualcosa come la canzone di prima, ma la voce di Doro subito raggiunse e coprì la sua. Qualcuno parlò dall'altra parte della piazza, balenò un lume alla finestra; tacemmo: sentimmo appena cominciare una lagna d'improperi e minacce, che già il manovale s'era buttato contro la porticina tempestandola di calci e di pugni. Doro mi afferrò la spalla e mi tirò nella banda d'ombra della casa di fianco.

“Stiamo a vedere se gli dànno il catino,” soffiò con la voce rauca, ridendo, “voglio vederlo tutto a mollo come un'oca.”

Un cane abbaiava vicinissimo; cominciavo ad avere vergogna. Tacemmo allora: anche Ginio, che si stringeva tra le mani un piede scalzo e saltabeccava sui ciottoli. Tacendo noi, si spensero anche le voci dalle rade finestre; scomparve quel lume; durarono soltanto, intermittenti, i latrati. Fu allora che sentimmo cigolare circospetta l'imposta lassù.

Ginio s'accasciò nell'ombra tra noi due. “Hanno aperto,” ci mugolò in faccia. Lo respinsi perché mi ricordai ch'era tutto infarinato.