Quattro ubriachi non bastano per farla ridere.”
“Eravate ubriachi?”
“Evidentemente.”
“Che ragazzi,” disse Clelia.
Tra noi due la notte di Ginio divenne un motto, e mi bastava alludere all'ometto bianco e alle sue capriole perché Clelia si rischiarasse di gaiezza. Ma quando le spiegai, quella sera, che Ginio non era un vecchietto calvo ma un coetaneo di Doro, fece una smorfia costernata. “Perché me l'ha detto? Così ha guastato tutto. Era un contadino?”
“Un muratore, a esser precisi.”
Clelia sospirava. “Dopotutto,” le dissi, “quel paese l'ha veduto anche lei. Può immaginarselo. Se Doro nasceva due porte più in là, lei forse a quest'ora era moglie di Ginio.”
“Che orrore,” disse Clelia sorridendo.
Quella notte, finito di cenare sul balcone, mentre Doro fumava abbandonato sulla seggiola tacendo e Clelia s'era andata a vestire per la serata, non volevano uscirmi di testa le chiacchiere di poco prima. S'era parlato di un certo Guido, collega quarantenne di Doro e scapolo, che avevo già conosciuto a Genova e ritrovato sulla spiaggia nel crocchio di Clelia - uno dei suoi amici - e venne fuori ch'era stato con lui che durante quella gita in automobile erano passati per il paese di Doro. Clelia, animata da un improvviso ricordo malizioso, raccontò senza farsi pregare tutta la storia di quella gita, e parlando aveva l'aria di rispondere a una domanda che non le facevo. Tornavano da non so che spedizione in montagna; era al volante l'amico Guido, e Doro aveva detto: “Lo sapete che in quelle colline trent'anni fa ci sono nato?” E allora tutti, e Clelia la prima, avevano tanto assordato Guido che questi aveva consentito a fare una punta fin lassù. Era state una pazzia perché bisognava avvertire del ritardo la macchina che li seguiva, e questa non arrivava mai, e l'avevano attesa per più di un'ora alla biforcazione; quando poi era sopraggiunta, stava calando la notte, e così, cenato in paese alla meglio, avevano dovuto arrampicarsi per misteriose stradette senza cartelli e traversare tante colline che mai, e sulla strada di Genova s'erano ritrovati ch'era quasi l'alba. Doro s'era messo accanto a Guido per riconoscere i luoghi, e nessuno era riuscito a dormire. Una vera pazzia.
Adesso che Clelia non c'era, chiesi a Doro se avevano rifatto la pace. Parlando pensavo: "Qui ci vuole un figlio", ma era questo un discorso che con Doro non avevo mai tenuto se non per scherzo. E Doro disse: “Fa la pace chi ha fatto la guerra. Che guerra mi hai visto fare sinora?” Lì per lì stetti zitto. Tra me e Doro, con tanta confidenza che pure avevamo, l'argomento di Clelia non era mai stato discusso. Stavo per dirgli che si può far guerra per esempio saltando sul treno e scappando, ma esitavo, e in quel momento Clelia mi chiamò.
“Di che umore è Doro?” mi chiese attraverso la porta socchiusa della stanza.
“Buono,” balbettai senza entrare.
“Sicuro?”
Clelia venne sulla porta aggiustandosi i capelli. Mi cercò con gli occhi nella penombra dove l'aspettavo. “Come, siete amici, e lei non sa che quando Doro si lascia canzonare senza rispondere, significa che è seccato e irritato?”
Allora provai con lei. “Non avete ancora fatta la pace?”
Clelia si ritrasse e tacque. Poi ricomparve pronta, dicendo: “Perché non accende?” Mi prese il braccio e attraversammo così la stanza in penombra. Mentre stavamo per uscire sul pianerottolo illuminato, Clelia mi serrò il braccio e bisbigliò: “Sono disperata. Vorrei che Doro stesse molto con lei, perché siete amici. So che lei gli fa bene e lo distrae...”
Cercai di fermarmi e di parlare.
“... No, non abbiamo litigato,” disse Clelia in fretta. “E nemmeno è geloso. E nemmeno mi vuol male. Soltanto, è diventato un altro. Non possiamo fare la pace, perché non abbiamo mai litigato.
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