STEFANO -

Avanti, allora: inginocchiati e giura.

( Gli porge la bottiglia)

TRINCULO -

Ci sarà da morir dalle risate

con questo mostro testa-di-capretto.

Ma che schifo di mostro!

Mi viene quasi voglia di picchiarlo.

STEFANO -

Avanti, bacia il libro.

TRINCULO -

Ma è già sbronzo!

Però che brutto mostro, abominevole!

CALIBANO -

( A Stefano)

Ti mostrerò le migliori sorgenti.

E andrò per te a cogliere le more;

e a pescare, e a raccogliere la legna

per portartene quanta te ne occorre.

Peste al tiranno che fin qui ho servito!

Non gli porterò più manco uno stecco!

Voglio seguire te, soltanto te,

uomo meraviglioso!

TRINCULO -

Vedi un po’!

Proprio tutto da ridere a scompiscio

questo mostro che fa una meraviglia

d’un arnese sbornione come te!

CALIBANO -

( A Stefano)

Lascia ch’io ti conduca, te ne supplico,

dove fioriscono i meli selvatici;

ti scaverò con le mie unghie lunghe

le gustose radici della terra;

ti porterò nei luoghi

dove fabbrica il nido la ghiandaia;

t’insegnerò come si prende al laccio

l’astuta ed agilissima bertuccia;

ti guiderò nei boschi di noccioli;

ti porterò talvolta dagli scogli

i giovani gabbiani. Vuoi venire?

STEFANO -

Senti, adesso, ti prego, facci strada,

senza dir più nemmeno una parola.

Sai che ti dico, Trinculo?

Che col fatto che il re con il suo seguito

sono tutti annegati, siamo noi

i legittimi eredi di quest’isola.

Che te ne pare?…

( A Calibano)

Qua la mia bottiglia!

Compagno Trinculo, è presto riempita.

CALIBANO -

( Canta sguaiatamente, da ubriaco)

“Padrone bello, addio!

“Addio, padrone bello!”.

TRINCULO -

Ulula, il mostro. Mostro ubriacone!

CALIBANO -

( c.s. )

“Più non farò recinti per pescare;

“più non porterò legna da bruciare;

“più non avrò taglieri da grattare,

“né piatti da lavare.

“Bau-bau, Calibano

“ha cambiato sultano.

“E tu tròvati un altro

“che gli passi la mano.

“Allegria, libertà!

“allegria, libertà!”.

STEFANO -

E bravo il nostro mostro! Facci strada.

( Escono)

A T T O T E R Z O

S C E N A I - D a v a n t i a l l a g r o t t a d i P r o s p e r o Entra FERDINANDO con un ceppo sulla spalla

FERDINANDO -

Ci son divertimenti

che a gustarli richiedono fatica,

e proprio in questa fatica sta il gusto;

ci son lavori vili

che si posson fare a nobil fine,

ed anche le più umili mansioni

posson servire altissimi propositi.

Questo servizio mio, rozzo e gravoso,

mi sarebbe pesante quanto odioso,

se non fosse ch’io servo una padrona

che vivifica pure ciò che è morto

e rende ogni fatica un godimento.

Ah, cento volte più cortese lei

che suo padre, un lunatico scorbutico

che più aspro con me non si potrebbe:

eccomi, per suo ordine, costretto

a trasportare ceppi a mille a mille,

e a metterli a catasta.

La soave mia giovane padrona

nel vedermi così affaticato

s’intenerisce e dice, tra le lacrime,

che mai ebbe sì alto esecutore

una sì vile ed umile mansione…

Ma io sto divagando… Qual sollievo

però non è per questa mia fatica

il trattenermi in sì dolci pensieri!

Ma eccola che viene.

Entra MIRANDA. Nel fondo, non visto, PROSPERO

MIRANDA -

Oh, non affaticatevi così,

ve ne prego! Vorrei tanto che un fulmine

avesse incenerito tutti quanti

quei ceppi che dovete accatastare!

Vi prego, deponetelo per terra

quello, e vogliate riposarvi un poco.

Son sicura che quando sarà al fuoco

quel ceppo piangerà pel dispiacere

d’avervi affaticato. Riposatevi.

Mio padre è tutto immerso nei suoi studi,

e qui, per due - tre ore, non verrà.

FERDINANDO -

Ho paura, diletta anima mia,

che il sole calerà

prima ch’io abbia scaricato tutto(45).

MIRANDA -

Se volete sedervi per un poco,

qualche ciocco potrei portarlo io;

quello che avete in spalla, per esempio,

datelo a me, che l’accatasto io.

FERDINANDO -

No, preziosa creatura.