A quest’ora è ancor umido
di rugiada. La strada, di giorno, lo copre di polvere,
come copre i cespugli. Il meccanico, sotto, si stira nel
sonno.
È l’estremo silenzio. Tra poco, al tepore del sole,
passeranno le macchine senza riposo, svegliando la polvere.
Improvvise alla cima del colle, rallentano un poco,
poi si buttano giú dalla curva. Qualcuna si ferma
nella polvere, avanti al garage, che la imbeve di litri.
I meccanici, un poco intontiti, saranno al mattino
sui bidoni, seduti, aspettando un lavoro.
Fa piacere passare il mattino seduto nell’ombra.
Qui la puzza degli olii si mesce all’odore di verde,
di tabacco e di vino, e il lavoro li viene a trovare
sulla porta di casa. Ogni tanto, c’è fino da ridere:
contadine che passano e dànno la colpa, di bestie e di spose
spaventate, al garage che mantiene il passaggio;
contadini che guardano bieco. Ciascuno, ogni tanto,
fa una svelta discesa a Torino e ritorna piú sgombro.
Poi, tra il ridere e il vendere litri, qualcuno si ferma:
questi campi, a guardarli soltanto, son pieni di polvere
della strada e, a sedersi sull’erba, si viene scacciati.
Tra le coste, c’è sempre una vigna che piace sulle altre:
finirà che il meccanico sposa la vigna che piace
con la cara ragazza, e uscirà dentro il sole,
ma a zappare, e verrà tutto nero sul collo
e berrà del suo vino, torchiato le sere d’autunno in cantina.
Anche a notte ci passano macchine, ma silenziose,
tantoché l’ubriaco, nel fosso, non l’hanno svegliato.
Nella notte non levano polvere e il fascio dei fari
svela in pieno il cartello sul prato, alla curva.
Sotto l’alba trascorrono caute e non s’ode rumore,
se non brezza che passa, e toccata la cima
si dileguano nella pianura, affondando nell’ombra.
[1933]
Città in campagna
Papà beve al tavolo avvolto da pergole verdi
e il ragazzo s’annoia seduto. Il cavallo s’annoia
posseduto da mosche: il ragazzo vorrebbe acchiapparne,
ma Papà l’ha sott’occhio. Le pergole dànno nel vuoto
sulla valle. Il ragazzo non guarda piú al fondo,
perché ha voglia di fare un gran salto. Alza gli occhi:
non c’è piú belle nuvole; gli ammassi splendenti
si son chiusi a nascondere il fresco del cielo.
Si lamenta, Papà, che ci sia da patire piú caldo
nella gita per vendere l’uva, che a mietere il grano.
Chi ha mai visto in settembre quel sole rovente
e doversi fermare al ritorno dall’oste,
altrimenti gli crepa il cavallo. Ma l’uva è venduta;
qualcun altro ci pensa, di qui alla vendemmia:
se anche grandina, il prezzo è già fatto. Il ragazzo s’annoia,
il suo sorso Papà gliel’ha già fatto bere.
Non c’è piú che guardare quel bianco maligno,
sotto il nero dell’afa, e sperare nell’acqua.
Le vie fresche di mezza mattina eran piene di portici
e di gente. Gridavano in piazza. Girava il gelato
bianco e rosa: pareva le nuvole sode nel cielo.
Se faceva ’sto caldo in città, si fermavano a pranzo
nell’albergo. La polvere e il caldo non sporcano i muri
in città: lungo i viali le case son bianche
e ogni tanto qualcuno si siede nei viali a far niente.
In città stanno al fresco a far niente, ma comprano l’uva,
la lavorano in grandi cantine e diventano ricchi.
Se restavano ancora, vedevano in mezzo alle piante,
nella sera, ogni viale una fila di luci.
Tra le pergole nasce un gran vento. Il cavallo si scuote
e Papà guarda in aria. Laggiú nella valle
c’è la casa nel prato e la vigna matura.
Tutt’a un tratto fa freddo e le foglie si staccano
e la polvere vola. Papà beve sempre.
Il ragazzo alza gli occhi alle nuvole orribili.
Sulla valle c’è ancora una chiazza di sole.
Se si fermano qui, mangeranno dall’oste.
[1933]
Gente che non capisce
Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest’ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l’erba.
Gella sa che sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e, spaziando dal treno,
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.
Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi piú.
Cosí, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli, che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell’erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l’erba, perché da trent’anni
l’ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.
Anche Gella vorrebbe restarsene, sola, nei prati,
ma raggiungere i piú solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba
e magari nel fango e mai piú ritornare in città.
Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie piú verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, cosí che in città
non la vogliano piú. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.
[29-31 luglio 1933]
Casa in costruzione
Coi canneti è scomparsa anche l’ombra. Già il sole, di sghembo,
attraversa le arcate e si sfoga per vuoti
che saranno finestre. Lavorano un po’ i muratori,
fin che dura il mattino. Ogni tanto rimpiangono
quando qui ci frusciavano ancora le canne,
e un passante accaldato poteva gettarsi sull’erba.
I ragazzi cominciano a giungere a sole piú alto.
Non lo temono il caldo.
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