Interiormente, comunque, Poe intendeva fondere, in un racconto a più ampio respiro, dati “concreti” e realistici di un avventuroso viaggio marino e significati ultimi e sfuggenti: da rimescolare attraverso sottili interventi e “giochi” di sperimentazione e d’alchimia linguistico-stilistica.

Per cui, se The Narrative prende inizio con un attacco di normale, pacato resoconto di viaggio, con la consueta autopresentazione da parte del narrante («Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli marittimi, a Nantucket, dove sono nato…»13), alla maniera del Robinson Crusoe di Defoe, discopre e sviluppa poi subito altre orientazioni, in una crescente tensione di ambivalenze: che finiscono con l’invadere la pagina al di là dell’attento dosaggio, pur perseguito lungo l’intera narrazione, tra “veridicità” (vi è sempre un attenuante «come non ho mai visto» nelle situazioni più estreme e fuori d’ordinario) e soprarealismo significante e simbolizzante.

Il giovanissimo Arthur Gordon Pym s’imbarca, in segreto, sulla baleniera di cui è capitano il padre del suo amico Augustus (l’amicizia come fondamentale situazione americana14). Deve però attendere nelle tenebre della stiva, come avverte Augustus con un messaggio scritto col sangue e fatto pervenire tramite un cane che si chiama Tigre. Nel frattempo, però, l’equipaggio si è ammutinato. Pym si salva insieme con Augustus e col gigantesco meticcio Peters. Ha spaventato i rivoltosi travestendosi da fantasma di un marinaio ucciso. Dopo altre peripezie (Augustus muore intanto di cancrena) Pym e Peters sono raccolti dalla goletta inglese Jane Guy diretta, in esplorazione, verso le regioni antartiche. Ma nell’isola di Tsalal, tutta “nera”, selvaggi diabolici fanno scempio della nave e dell’equipaggio. Pym e Peters riescono, ancora, a salvarsi attraverso burroni e caverne labirintiche sulle cui pareti sono incisi strani segni, come misteriosi geroglifici. Riaffrontano il mare in canoa, finché non li blocca una «gigantesca cortina» che «occupava l’orizzonte in tutta la sua estensione». E scaturisce da lì un fulgore abbagliante.

 

Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve15.

 

Non vi è, tuttavia, vera fusione (com’è invece nei tales più rappresentativi). Da una parte, la “veridicità” e lo sviluppo propriamente narrativo restano alquanto fragili, con una delineazione solo abbozzata dei caratteri, con le troppo minuziose digressioni esplicative (con l’ausilio magari, di libri e manuali di marineria allora correnti); dall’altra, emblemi e simboli irrompono, a loro volta, in maniera un po’ informe. Ma con una loro potente carica di per se stessa, si direbbe, fortemente coinvolgente. Ed è una tale emblematizzazione che dà direzione, e vivezza e smalto, all’intera narrative, e che fa di un nervoso e un po’ improbabile accumulo di incidenti di mare d’ogni sorta (orribili tempeste, naufragi, salvataggi, ammutinamenti, cannibalismi, strani animali e feroci selvaggi in remote isole) qualcosa, specialmente nella parte finale, di intensamente significante.

Forando, si può dire, l’inadeguato involucro del resoconto empirico, «le parole creano un’altra realtà»16, diffondono atmosfere, sensi d’ambiguità, simbologie. Vi è, già immediato, il “trucco” dell’Avvertenza, all’inizio, il gioco tra autore “vero” e autore “finto” con riferimento, da parte del narrante, a un «mister Poe». E del resto il trittico di nomi Arthur Gordon Pym non sembra risuonare come Edgar Allan Poe? E poi il rosso acceso del sangue (vi è, incalzante, tutta una simbologia dei colori), il nero infernale dell’isola, il feroce scontro fra tutto quanto è “nero” e quanto è “bianco” (con allusività anche razzistiche?). La cavità della nave è il grembo materno; il viaggio è un viaggio onirico – fino alla mitopoiesi delle ultime pagine – fino alla scoperta dei segni misteriosi, fino al culmine dell’apparizione della «figura umana dal volto velato».

Il polo, l’Antartico in particolare, avevano da sempre affascinato Poe: come una terra incognita, “deposito” di segrete possibilità, di inedite, “surreali” forme e modi d’esistenza (e molto se ne parlava, del resto, in quegli anni).

E in Poe, d’altra parte, è tutt’altro che assente il fantasticare “fantascientifico”17. Ma che cosa rappresenta quell’incontro finale, in cui è poi il senso stesso del libro? Quel trionfo del bianco è morte e desolazione o emblema di catarsi e rinascita? Non vi è catastrofe, ma catarsi, appunto. Quell’immenso biancore, somma e annullamento, al tempo stesso, di tutti i colori (l’«omni-color»), è metafisica metafora dell’ego che si reinnesta nel cosmo; o della primordiale dea-madre che ci riaccoglie, come in un «ritorno alle origini della creazione»18, in una unità in cui si ricompongono tutti i frammenti («si era spalancato un abisso per riceverci»)?

Certo, la visione è solo un baleno, è come una visione drasticamente interrotta: ma fissata in un’efficacia ormai “mitica”. Poe ha bisogno, per ragioni narrative, di far sopravvivere Pym, senza indicare intanto, in modo “credibile”, come ciò possa essere avvenuto; e rientra perciò, bruscamente, nel criterio della “verosimiglianza” con una un po’ sconcertante «Nota finale». Ma «nessun lettore può credere al ritorno e alla sopravvivenza di Pym»19.

Ad ogni modo, più che ad un generico panteismo, occorrerebbe qui collegare il tutto a quanto Poe stesso esporrà, più tardi, compiutamente, in Eureka, il poemetto filosofico in versi. Non vi è separazione tra lo spirituale e il materiale, e la “materia” si fa “spirito”, per Poe, e progredisce, attraverso l’energia, l’etere, l’elettricità, il magnetismo, il pensiero, l’anima – fino a Dio. La grande, enorme figura dal volto velato è un tale Dio? O qualcosa, parodossalmente, di ancor più sfuggente?

Da lì, da quel biancore germinerà, comunque, anche l’immacolato biancore dell’enorme, mostruosa Balena di Melville. E Jules Verne – ancora, un francese –, colpito dalla potente suggestione della scena finale, vorrà, a suo modo, perfino dare un seguito a The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket20.

 

TOMMASO PISANTI

 

 

 

1 H. LEVIN, The Power of Blackness: Hawthorne, Poe, Melville, New York 1958.

2 Nella prefazione ai Tales of the Grotesque and the Arabesque (1840). Sugli influssi “francesi” di Poe: P. F. QUINN, The French Face of Edgar Allan Poe, Carbondale, Ill., 1957.

3 E.