Tentiamo subito se possiamo far fortuna col signor Squeers; ma egli potrebbe risponderci con un rifiuto.

– Non lo farà, – disse Rodolfo. – Sarà lieto di averti, dietro mia raccomandazione. Cerca d'essergli utile, e in poco tempo diventerai suo socio nell'istituto. Il Signore mi benedica, pensa soltanto! Se egli venisse a morire, la tua fortuna sarebbe subito fatta.

– Certo, lo veggo, – disse il povero Nicola, incantato da centinaia di assurde speranze, evocate dalla sua giovinezza e dalla sua inesperienza. – O supponiamo che io riesca simpatico a qualche giovane titolato che vien fatto educare all'Hall; ch'egli, licenziandosi dalla scuola, persuada il padre a prendermi come suo istitutore e compagno di viaggio, e che al ritorno dal continente mi procuri qualche buon posto?

– Oh, certo! – sogghignò Rodolfo.

– E chi sa che quand'egli viene a farmi visita (come non può mancare di fare) dopo che io mi sarò fatta una posizione, non possa innamorarsi di Caterina, vedendola dirigere la mia casa, e… e… non la sposi, eh! zio? Chi sa?

– Sì, chi sa! – sogghignò Rodolfo.

– Come saremmo felici! – esclamò Nicola con entusiasmo. – Il dolore della partenza è nulla in confronto della gioia del ritorno. Caterina sarà una bella signora, e sarò orgoglioso di sentirmelo dire, e la mamma sarà felice d'esser di nuovo con noi, e tutti questi tristi giorni saranno dimenticati, e… – Il quadro era troppo abbagliante per esser guardato in pieno, e Nicola, che ne fu appunto soverchiato, sorrise debolmente e si mise a piangere.

Quella modesta famiglia, nata e allevata nel ritiro, e assolutamente inesperta di ciò che si chiama mondo – frase convenzionale che, interpretata, significa tutti i bricconi che esso contiene – confuse insieme le lacrime al pensiero della separazione che s'annunciava; e tutti e tre, cessato il primo sfogo della loro commozione, stavano cominciando a diffondersi, con tutto lo slancio delle speranze non ancora deluse, sullo splendido avvenire che avevano dinanzi, quando il signor Rodolfo Nickleby osservò, che, se avessero perso tempo, qualche candidato più fortunato avrebbe potuto privare Nicola del primo gradino alla fortuna, indicato dall'annuncio, e così far rovinare tutti i loro castelli in aria. Questo avvertimento, dato a tempo, interruppe subito la conversazione, e dopo che Nicola ebbe accuratamente trascritto l'indirizzo del signor Squeers, lo zio e il nipote uscirono alla ricerca di quel degno galantuomo: Nicola fermamente persuaso d'aver fatto al parente una grande ingiustizia giudicandolo male nel primo momento, e la signora Nickleby un po' impacciata nel dire alla figliuola che lei era sicura che lo zio era molto più buono che non sembrasse; al che la signorina Nickleby osservò con qualche dubbio che facilmente poteva esser così.

Per dire la verità, sull'opinione di quella brava donna aveva avuto non piccolo effetto l'appello alla sua acuta intelligenza e l'implicito complimento sui suoi grandi meriti fattile dal cognato; e benchè ella avesse voluto molto bene al marito e avesse un cieco amore per i figli, Rodolfo Nickleby aveva picchiato con tanta forza su una di quelle piccole, stridenti corde del cuore umano (egli ne conosceva le peggiori debolezze, sebbene ne ignorasse le buone qualità) ch'essa già si considerava la dolce e sofferente vittima dell'imprudenza del defunto marito.

Capitolo 4

Lo zio e Nicola (per acciuffar senza indugio la fortuna) fanno una visita al signor Wackford Squeers, l'insegnante del Yorkshire.

Monte di Neve! I tranquilli abitanti delle cittadine lontane, che veggono queste abbaglianti parole in tutta la leggibilità delle lettere dorate e dell'ombreggiatura scura, sulle diligenze che viaggiano a nord di Londra, come immaginano che sia questo Monte di Neve? Tutti hanno qualche vaga e indefinita nozione d'un luogo il cui nome hanno spesso innanzi agli occhi e spesso nelle orecchie; e che vasto numero di bizzarre idee deve fluttuare continuamente intorno a questo stesso Monte di Neve! Il nome è bene adatto. Monte di Neve – e poi Monte di Neve insieme con una testa di saraceno ci richiama, con la sua duplice associazione d'idee, un non so che d'aspro e di fiero. Un tratto desolato di campagna brulla, aperta alle gelide raffiche e alle fiere tormente invernali – una landa triste, fredda e buia, solitaria di giorno, e appena degna di esser ricordata dalle persone oneste la notte – un luogo che i viaggiatori solinghi evitano e che i più terribili grassatori designano per le loro assemblee; – questo o qualcosa di simile, crediamo debba essere il concetto più diffuso di Monte di Neve in quelle remote parti rurali, attraverso le quali la testa di saraceno, come un triste fantasma, passa ogni giorno e ogni notte con misteriosa e spettrale puntualità, correndo rapida e precipitosa in ogni stagione, con l'aria di muovere una sfida agli stessi elementi.

La realtà è piuttosto diversa, ma pure da non essere negletta. Lì, nello stesso cuore di Londra, nel vivo centro degli affari e della maggiore animazione, sta la prigione di Newgate, come per frenare le correnti gigantesche di vita che vi affluiscono continuamente da tutte le parti e s'incontrano sotto le sue mura, e in quell'arteria gremita di folla sulla quale essa guarda con così fosco cipiglio – a pochi metri dalle case squallide e barcollanti, nello stesso punto nel quale i rivenditori di zuppa e di pesce fritto e di frutta avariate conducono ora il loro commercio – dozzine di esseri umani, fra un coro di grida di fronte al quale è nulla anche il tumulto d'una grande città, quattro, sei o anche otto persone ancor sane, venivano soppresse tutte insieme violentemente e rapidamente dal mondo, in una scena ch'era resa ancora più terribile da tanto rigoglio di vita umana, sotto gli occhi dei curiosi che lucevano dalle finestre, dai tetti, dai muri e dai pilastri e mentre nella calca dei visi bianchi volti all'insù, lo sciagurato morente, nel suo ultimo sguardo di angoscia, non ne incontrava uno – neppur uno – che portasse l'impronta della compassione e della pietà.

Accanto alla prigione, e quindi anche nei pressi di Smithfield e della Borsa e del traffico e del trambusto del centro londinese, e appunto in quella precisa parte di Monte di Neve dove i cavalli degli omnibus si dirigono a oriente proponendosi seriamente di cadere a bella posta, e dove i cavalli delle carrozze da nolo che si dirigono a ponente non di rado cadono per disgrazia, c'è il cortile dell'Albergo alla Testa di Saraceno, con l'ingresso vigilato da due teste e quattro spalle di saraceni. Una volta era orgoglio e gloria degli spiriti eletti della metropoli calar giù, di notte, le due teste e le spalle dei due saraceni; ma per qualche tempo son rimaste in calma indisturbata, forse perché questa specie di tiri è ora limitata alla parrocchia di San Giacomo, dove si preferiscono, come più portatili, i martelli delle porte, e i fili di ferro dei campanelli, che si considera siano adatti a sostituire gli stuzzicadenti. Sia questa o no la ragione, il fatto sta che le due teste di saraceno ci sono ancora col loro cipiglio, all'uno e all'altro lato dell'ingresso. L'albergo stesso, ornato di un'altra testa di saraceno, vi guarda accigliato dal fondo del cortile; mentre dal cassetto posteriore di tutte le diligenze rosse che vi sono schierate, spicca una piccola testa di saraceno con una espressione gemella della testa di saraceno grande, di modo che l'aspetto generale dell'edificio è decisamente d'ordine saraceno.

Se entrate nel cortile, vedrete l'ufficio dei biglietti a sinistra, e a destra il campanile della chiesa di San Sepolcro, che balza improvvisamente in cielo; e a entrambi i lati una galleria di camere da letto. Proprio di fronte, osserverete una lunga vetrina con le parole chiaramente dipinte "Ingresso al caffè"; e arrivando in tempo, vedreste inoltre guardare dalla stessa vetrina, con le mani in tasca, il signor Wackford Squeers.

L'aspetto del signor Squeers non era attraente. Egli aveva soltanto un occhio, e il pregiudizio popolare ne vuole due. L'occhio che aveva, era indiscutibilmente utile, ma non troppo decorativo, giacchè era verdiccio e di forma non dissimile a certi finestrini a ventaglio che si veggono sulle porte. Il lato non illuminato della faccia era molto rugoso e pieghettato, e dava al signor Squeers una certa sinistra ingrugnatura, specie quelle volte che sorrideva, poichè l'espressione assumeva un'impronta di furfanteria. I capelli molto lisci e lucidi, eccetto alla punta che era spazzolata irta intorno alla fronte protuberante, erano in perfetta armonia con la voce rauca e le maniere ruvide. Egli aveva cinquantadue o cinquantatrè anni, ed era un po' al di sotto della statura media: portava una cravatta bianca con le cocche lunghe e un vestito nero da pedagogo; ma siccome le maniche erano un po' troppo lunghe e i calzoni erano un po' troppo corti, sembrava ch'egli si sentisse a disagio nei panni e come in una condizione perpetua di stupore nel trovarsi d'apparenza così rispettabile.

Il signor Squeers stava, accanto a uno dei focolari della sala del caffè, in una partizione arredata con uno di quei tavolini che di solito si veggono nei caffè e con altri due di strana forma e di strane dimensioni fatti per essere adattati agli angoli dei tramezzi. In un angolo del canapè c'era un piccolo baule legato con una fune sfrangiata; e sul baule se ne stava appollaiato – coi mezzi stivaletti allacciati e i calzoni di felpa penzoloni in aria – un minuscolo ragazzetto, le spalle sollevate fino alle orecchie, e le mani piantate sulle ginocchia, il quale guardava di tanto in tanto timidamente l'insegnante con evidente apprensione e timore.

– Le tre e mezzo, – mormorò il signor Squeers, staccandosi dalla vetrina e dando una trista occhiata al pendolo della sala. – Non verrà nessuno oggi.

Molto seccato da questa riflessione, guardò il ragazzino per veder se non facesse qualcosa per cui potesse picchiarlo. Ma siccome vide che non faceva proprio nulla di nulla, gli tirò semplicemente le orecchie e gli disse di non farlo più.

– L'altra volta, – mormorò il signor Squeers, ripigliando a lamentarsi, – mi condussi dieci ragazzi; dieci per venti fanno duecento sterline. Domani mattina alle otto ritorno, e me ne vado con tre soltanto… tre per zero zero… tre per due sei… sessanta sterline. Che avviene di tutti i ragazzi? E i parenti che cosa si son messi in testa? Tutto questo che significa?

A questo punto il ragazzo appollaiato sul baule fece un violento starnuto.

– Ehi, tu? – ringhiò l'insegnante, voltandosi. – Che cosa c'è?

– Nulla, signore, di grazia, – rispose il ragazzino.

– Nulla! – esclamò il signor Squeers.

– Di grazia, signore, ho starnutato, – soggiunse il ragazzo, tremando da scuotere sotto di sè il baule.

– Ah! Hai starnutato, hai, – ribattè il signor Squeers. – Allora perché hai detto "nulla"?

In mancanza d'una calzante risposta a quella domanda, il ragazzino si avvitò in ciascun occhio un paio delle nocche delle dita e cominciò a piangere, per cui il signor Squeers lo sbalzò giù dal baule con uno schiaffo su una guancia, e ve lo fece balzar su di nuovo con uno schiaffo sull'altra.

– Aspetta che ti abbia laggiù nel Yorkshire, signorino bello, – disse il signor Squeers, – e allora ti darò il resto. La finisci con quella musica?

– S… s… sì – singhiozzò il ragazzino, stropicciandosi forte il viso con la Preghiera del Mendicante stampata sul suo fazzoletto di cotone.

– Allora finiscila immediatamente, – disse Squeers. – Hai capito?

Siccome questa ingiunzione fu accompagnata da un gesto minaccioso, e pronunciata con uno sguardo feroce, il ragazzino si stropicciò più forte il viso, come per far diga alle lagrime; e tranne che soffiare e ringoiare, non diede altro sfogo alla sua commozione.

– Signor Squeers, – disse il cameriere entrando in quel momento, – c'è un signore al banco che chiede di voi.

– Fate entrare il signore, Riccardo, – rispose Squeers con voce bonaria. – Mettiti il fazzoletto in tasca, tu, bricconcello, o t'ammazzerò quando il signore se ne sarà andato.

L'insegnante aveva appena pronunciate queste parole in un terribile bisbiglio, che il visitatore entrò.

Fingendo di non vederlo, il signor Squeers si mise a temperare una penna e a dare dei benevoli consigli al suo giovane allievo.

– Figlio mio caro, – diceva il signor Squeers, – tutti hanno le loro prove.