Gli strati esposti appartenevano al Giurassico e al Comanciano per quanto riguardava le arenarie, al Permiano e al Triassico per gli schisti, con un blocco nero e lucente che appariva ogni tanto a ricordare la probabile presenza di carbone duro e simile ad ardesia. Questo scoraggiò notevolmente Lake, i cui piani miravano alla scoperta di campioni vecchi più di cinquecento milioni di anni. Era evidente che per ritrovare la vena di ardesia archeana in cui aveva scoperto le strane impronte, avrebbe dovuto fare un lungo viaggio in slitta dalle montagne relativamente modeste fra cui si era accampato ai ripidi fianchi delle vette maggiori.

Tuttavia aveva deciso di fare alcuni scavi in loco, come parte del programma generale della spedizione; quindi preparò la scavatrice e vi mise cinque uomini al lavoro, mentre gli altri completavano l’allestimento del campo o riparavano l’aereo danneggiato. Lake aveva scelto la roccia più tenera a portata di mano - un’arenaria che si trovava qualche centinaio di metri dal campo - per effettuare i primi tentativi, e la scavatrice fece eccellenti progressi senza dover ricorrere a molte esplosioni supplementari.

Circa tre ore più tardi, dopo la prima esplosione degna di questo nome, gli uomini addetti alla scavatrice cominciarono a gridare e il giovane Gedney, capogruppo, corse all’accampamento con le straordinarie notizie.

Avevano trovato una caverna. All’inizio delle operazioni di scavo l’arenaria aveva ceduto il posto a una vena calcarea del Comanciano piena di minuscoli fossili di cefalopodi, coralli, echinoidi e spirifere; ogni tanto si intravedevano tracce di spugne silicee e addirittura ossa di vertebrati marini (probabilmente teleostomi, squali e ganoidi). La cosa era già importante di per se stessa, perché costituiva la prima scoperta di vertebrati effettuata dalla spedizione, ma quando poco dopo la trivella affondò nello strato e trovò il vuoto, fra gli uomini si diffuse un’ondata di eccitazione ancora più intensa. Un’esplosione di adeguata potenza aveva aperto un sotterraneo nascosto, e ora, attraverso l’apertura frastagliata che misurava circa un metro e mezzo di larghezza e un metro di profondità, agli occhi degli osservatori apparve una cavità scavata nel calcare dallo stillicidio delle acque superficiali di uno scomparso mondo tropicale più di cinquanta milioni d’anni fa.

La caverna non era alta più di due metri e mezzo-tre metri, ma si estendeva indefinitamente in tutte le direzioni e al suo interno l’aria fresca e mossa faceva pensare che appartenesse a un esteso sistema sotterraneo. Il soffitto e il pavimento erano forniti di stalattiti e stalagmiti, alcune delle quali si incontravano a formare una serie di colonne; ma la cosa più importante era il vasto deposito di gusci e ossa che in qualche punto ostruivano quasi completamente il passaggio. Trasportato dall’acqua di sconosciute giungle mesozoiche di felci e funghi e dalle foreste di cicadee, palme e angiosperme primitive del Terziario, quel guazzabuglio di ossa conteneva esemplari di numerose specie animali del Cretaceo, dell’Eocene e altre epoche ancora: il più grande paleontologo del mondo non sarebbe riuscito a classificarle in un anno. Molluschi, corazze di crostacei, pesci, anfibi, rettili, uccelli e antichi mammiferi… creature grandi e piccole, note e ignote. Non c’è da meravigliarsi che Gedney tornasse al campo urlando, e che tutti gli uomini interrompessero il lavoro per precipitarsi nel freddo pungente dove l’alta scavatrice aveva aperto un nuovo ingresso ai segreti delle viscere della terra e del passato.

Quando Lake ebbe soddisfatto le curiosità più urgenti, scrisse un messaggio sul taccuino e l’affidò al giovane Molton perché corresse al campo e lo trasmettesse per radio. In questo modo ebbi notizia della scoperta: si accennava all’identificazione dei primi gusci, alle ossa di ganoidi e placodermi, ai resti di labirintodonti e tecodonti, ai frammenti del teschio di un grande mesosauro, alle vertebre di un dinosauro e alle corazze di altri animali; ai denti di pterodattilo e alle ossa delle relative ali, ai frammenti di archeopterix, ai denti di squali del Miocene, a primitive teste d’uccello, scheletri, vertebre e altre ossa di mammiferi arcaici quali paleoteri, xifodonti, dinocerasi, eoippi, oredonti e titanoteri. Non c’era traccia di bestie più recenti come mastodonti, elefanti, autentici cammelli, cervi o qualche bovino: questo permise a Lake di concludere che il deposito risaliva all’Oligocene, e che lo strato che costituiva la caverna era rimasto nel suo attuale stato inaccessibile, morto ed essiccato per almeno trenta milioni di anni.

D’altra parte la prevalenza di antichissime forme di vita era molto singolare. Benché la formazione calcarea appartenesse sicuramente al periodo Comanciano, e non fosse per niente anteriore (lo dimostrava la presenza di fossili come i ventricoliti), i frammenti d’ossa rinvenuti allo stato libero nella caverna comprendevano una stupefacente quantità di organismi considerati fino a quel momento tipici di epoche molto più remote: c’erano pesci rudimentali, molluschi e coralli del Siluriano o addirittura dell’Ordoviciano. L’inevitabile conclusione era che in quella parte del mondo si fosse verificata una straordinaria, eccezionale continuità tra forme di vita apparse per la prima volta trecento milioni di anni fa e altre che risalivano a soli trenta milioni d’anni. Fino a che punto questa continuità si fosse estesa oltre l’Oligocene, quando la caverna si era bloccata, andava al di là delle nostre congetture. In ogni caso, la spaventosa glaciazione del Pleistocene avvenuta circa cinquecentomila anni fa (ieri, a paragone della remotissima antichità della grotta) doveva aver sterminato eventuali forme di vita arcaiche sopravvissute alla propria èra.

Lake non si accontentò di inviare queste prime informazioni, ma compilò e trasmise un altro dispaccio che raggiunse il campo via slitta, prima del ritorno di Moulton. Da quel momento in poi Moulton rimase all’apparecchio radio in uno degli aerei per trasmettere a me e all’ Arkham - che li avrebbe divulgati al resto del mondo - i frequenti aggiornamenti che Lake aveva cominciato a inviargli con una serie di messaggeri. I lettori dei giornali ricorderanno l’eccitazione creata fra gli uomini di scienza dai rapporti del pomeriggio: e proprio le notizie che risalgono a quel fatidico giorno hanno condotto, dopo tutti questi anni, all’organizzazione della spedizione Starkweather-Moore, la stessa che io tento di dissuadere. Sarà meglio che trascriva letteralmente i messaggi di Lake: è la versione preparata alla base dall’operatore McTighe, che li trascrisse da appunti stenografici.

“Su frammenti di calcare e arenaria portati alla luce con opportune esplosioni, Fowler ha compiuto una serie di scoperte della massima importanza. Numerose impronte striate triangolari, come quelle rinvenute nell’ardesia dell’Archeano, dimostrano la sopravvivenza dell’oggetto che le ha lasciate per un periodo di oltre seicento milioni di anni, fino al Comanciano. In questo lunghissimo periodo l’oggetto mostra pochissime alterazioni morfologiche e solo una leggera diminuzione nella grandezza media. Le impronte del Comanciano sono, a quanto sembra, più rozze o decadenti di quelle che risalgono a epoche più remote. L’importanza della scoperta va assolutamente sottolineata alla stampa. Per la biologia è una rivoluzione paragonabile a quella di Einstein nella matematica e nella fisica. Tutto collima con il lavoro fin qui svolto e ne amplifica le conclusioni. Le scoperte indicano, come sospettavo, che la terra ha conosciuto un lungo ciclo, o addirittura una serie di cicli biologici anteriori a quello noto (che comincia con gli organismi unicellulari dell’Archeozoico). Queste forme di vita anteriori si sono evolute, e specializzate, non meno di un miliardo d’anni fa, quando il pianeta era giovane e ancora inabitabile per qualunque forma organica o struttura protoplasmica normale. Nasce il problema di dove, e quando, abbia avuto luogo tale sviluppo.”

“Più tardi. Esaminando i frammenti scheletrici dei grossi sauri marini e terrestri e di alcuni mammiferi primitivi, abbiamo trovato singolari tracce di ferite locali, o danni alle ossa, che non si possono attribuire a predatori o carnivori di nessuna epoca conosciuta.