Le Tentazioni
Grazia Deledda
LE TENTAZIONI
INDICE
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I Marvu
Un piccolo uomo
L’assassino degli alberi
Zia Jacobba
Donna Jusepa
Le tentazioni
Nel regno della pietra
I MARVU
In un angolo della tavola da pranzo, che riflettendo la luce gialla del lume risplendeva come una lastra di rame, Diego e Maria giocavano appassionatamente a carte. Essi conoscevano a perfezione ogni partita, dalla scopa al tresette, dalla briscola al lanzichenecco e all’asino, e sempre giocavano, sino ad esaurirsi. Fuori imperversava il vento e gelava, tanto che il fuoco del camino e del braciere non bastavano a riscaldare il freddo ambiente della vasta stanza bianca, scarsamente arredata; ma i due giovanissimi giocatori non si accorgevano di nulla, non provavano freddo, non sentivano il vasto soffio del vento che scuoteva le inferriate e passava con un possente fruscìo come di mille giganti in corsa: e non pigliavano parte alla conversazione o meglio alle conversazioni.
Giacché la numerosa famiglia era divisa per la vasta stanza in altri tre gruppi distinti.
Intorno al pedale di legno dell’antico braciere, sul cui rosso fuoco la cenere stendeva un sottile merletto bianco, stavan Margherita, la maggior figlia, e Giovanni Faira, suo marito. Entrambi biondi, egli piccolo, pallido, con occhietti azzurri socchiusi; ella altissima ed elegantissima nel modesto vestito di indiana pelosa a quadrati rossi e violacei; venivano chiamati da tutti, anche in famiglia, i “signori l-i” per la loro diversa statura. C’era poi donna Martina, e, un po’ lungi dal braciere, Filippa, la secondogenita e Nino Faira, fratello del signor Giovanni, che faceva segretamente e da lontano la corte a Maria, terza figlia di donna Martina Marvu. Nino, studente in primo anno di leggi, che passava in paese le vacanze natalizie, veniva ogni sera dai Marvu a scorrervi alcune dolci ore di segreta estasi, in contemplazione del graziosissimo volto di Maria, e portava sempre fasci di libri, opuscoli e giornali illustrati. Il suo amore era così profondo e segreto e la sua corte tanto sottile e misteriosa, che nessuno, neppur Maria, se ne accorgeva!
Ei portava i libri e i giornali appunto e appositamente per lei, segnati a lapis rosso, con certe freccie sanguinanti che parevano estratte da profonde ferite, nei punti, nei periodi e nei versi che meglio s’adattavano al suo stato d’animo; ma nessuno ci badava; e tanto meno Maria, che era l’ultima a leggere i libri e i periodici già frustati e sciupati dalle altre sorelle e dal piccolo gregge.
Il piccolo gregge (così donna Martina lo chiamava nel suo rude linguaggio), consisteva in quattro ragazzetti indemoniati, Martino e Peppino, Grazietta e Chichita [1], i due primi, dagli otto ai dieci anni, ultimi figli di donna Martina, e le bambine degni rampolli del piccolo e cascante Giovanni Faira.
Grazietta contava quattro anni, e Chichita due e mezzo.
Tutti e quattro, zii e nipotine, biondi e magri, chi con gli occhi grigi, chi con gli occhi neri, erano la disperazione della casa; stavano tutto il santo giorno a correre nel grande orto attiguo, gridando a squarciagola; arrampicandosi sui meli, sugli alti e snelli susini e persino sui pali del pergolato; incidendo nomi, date, geroglifici e parole insolenti sulle grandi e pallide foglie carnose dei fichi d’India, fabbricando case e giardini e castelli e stabilimenti interi, coi molini, i pozzi, ferrovie e i relativi ponti, 1
fabbriche di terra… cruda, teatri, caserme, e persino prigioni di sassi e di rami, ove si rinchiudevano a vicenda.
Avevano a lor disposizione corni da caccia, trombe, carri di ferula, buoi e cavalli di canna, fucili e rivoltelle della stessa materia, casseruole e mestole, e infine un bagaglio innominabile, nascosto pei buchi del muro, sugli alberi, sotto terra, da per tutto.
Persino Chichita, alta due palmi, ancora balbuziente e con le gambette storte sempre ignude e rosse di freddo, perché le calzette invece della lor giusta missione compivano quella di copri-scarpe, pigliava parte a tutte le scorrerie della compagnia: se non poteva più la mettevano a far il pranzo, tutto d’erbe cattive e di polvere, o la rinchiudevano in prigione, rea d’innominabili delitti. Pur di far una parte, ella restava contenta, e in attesa del dibattimento scavava un pozzo entro la prigione.
Occhiverdi, la gatta fulva dagli occhi di vetriolo, altro importante personaggio della compagnia, faceva la sentinella. Già, la poverina veniva costretta a tutti gli uffizî; a girar il molino, a tirare i carri, a far la guardia carceraria, a comparir sulle scene con lo strascico e la cuffia. Alle volte però, quando Chichita stava in prigione e i grandi sui muri e fra le siepi facevano la guerra e le battaglie di Roncisvalle o di Montaperti (Diego voleva esser classico allorché dirigeva egli gli eserciti), Occhiverdi scappava dal casotto, scuotendo le zampine bionde. Ed ecco che allora la prigioniera si liberava da sé, e correva dietro la sentinella: un caso veramente strano.
Facevano così il giro dell’orto, e cadevano fra i guerrieri di Carlo Magno e di Farinata, scompigliandoli e mandando a monte tutto il piano di guerra.
Grazietta, una spiritata, coi capelli sempre sugli occhi, che per i suoi quattro anni parlava già discretamente male del prossimo, picchiava Chichita; Peppino e Martino, nella lor qualità di zii, bastonavano le monelle; Diego, caporione e capitano di tutta la volante squadriglia, pallido e miope coi suoi tredici anni prepotenti, metteva tutti in castigo. Schiaffi di qua, pedate di là, il finimondo, la battaglia vera, con grida, pianti ed altri guai, e sputi e insulti dell’altro mondo. Ci si mischiavano persino i grandi, e una volta Giovanni Faira era stato sul punto di andarsene con la moglie e le figlie, perché Peppino aveva fracassato il nasetto rosso di Grazietta con un pugno numero uno, chiamandola ladra figlia di ladro!
Una disperazione, infine. Andavano a mala pena a scuola, ma odiavano e mettevano in caricatura la povera vecchia maestra, e non studiavano né facevano nulla.
La mattina uscivano di camera lindi e puliti e coi ribelli capelli acconciati; la sera non si riconoscevano più, con gli occhi e il naso pieni di terra, le manine graffiate e nere, i vestitini a brandelli. Filippa e Maria non bastavano a rattoppare.
Solo al cospetto di Giovanni, il cui sguardo felino li impauriva, stavano alquanto tranquilli, ma egli, costretto dal suo impiego, restava fuori quasi tutta la giornata. A Maria e Filippa non badavano; e Margherita e donna Martina li avevano troppo viziati e ancor troppo li viziavano, perché potessero incuter loro rispetto e obbedienza.
Esse d’altronde, sempre sopraffatte da faccende e da affari in quella gran casa di possidenti sardi, non avevano il tempo necessario per educare quei bimbi nervosi e prepotenti. Rinchiuderli in casa era come ucciderli, essendo essi come gli uccelli dell’orto selvatico, scesi dal nido appena messe le prime piume; eppoi avrebbero fracassato ogni cosa; e per mandarli in collegio, nelle città lontane, non era ancora tempo.
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