- Leggila, e rispondimi domani.

E siccome ella rimaneva stordita, egli le prese rapidamente la testina fra le mani e la baciò: e fuggì via, scendendo i gradini a tre a tre e rialzandosi il colletto del soprabito. Maria scese, rinchiuse la porta e risalì guardando da una parte e dall’altra la cara lettera; le sue labbra non avevano sentito neppure le dolci e ardenti labbra di Nino, ma l’anima sua aveva sentito il bacio d’una nuova vita, e in quello sfondo buio di scala, sul cui vuoto i ghirigori neri della balaustrata guardavano come strani occhi oscuri, scorgeva un orizzonte luminoso.

Invece di rientrare nella stanza da pranzo proseguì a salire le scale. Ed ecco Diego, ritto sui gradini, serio e fatale.

- Cosa fai lì? - domandò Maria, spaventandosi e indietreggiando.

- Ho veduto tutto! - egli disse. - Tu fai l’amore con Nino Faira, e se non mi paghi dico tutto alla mamma e a Filippa!

- Cosa? Cosa?…

- Cosa? - diss’egli alzando la voce. - Te la dico io la cosa! Se non mi dai tutto il denaro che possiedi, ti accuso a Filippa!

Davanti alla viltà di lui, Maria, ricadendo nella più brutale realtà, reagì, arrossì e gridò esasperata:

- Ti do un corno! - e ridiscese decisa di mostrar la lettera a sua madre e a Giovanni.

Fuor nella strada, stravolto dalla gigantesca corsa del vento, col soprabito aperto sul petto pulsante, Nino diceva fra sé:

- Oh Maria, mia dolce Maria, ogni tuo pensiero sia con me in questo momento!

Ma in quel momento Maria, con la lettera d’amore non ancor aperta fra le gelide mani, scendeva le scale amaramente pensando:

- Diego la finirà male!

UN PICCOLO UOMO

Nella catena di detenuti giunti la sera del 23 marzo al Penitenziario, eravi un giovane piuttosto distinto, vestito di grigio, con un gran cappello quasi bianco, l’ombra delle cui larghe falde orlate di nastro grigio oscurava un pallido volto scarno dal profilo aquilino e dalla barba nera a punta, accuratamente tenuta. Durante il viaggio aveva continuamente taciuto, con le lunghe ciglia nere chine, le sopracciglia aggrottate, e gli occhi costantemente fissi sulle mani scarne e nervose dalle unghie assai lunghe, serrate nel lucente ferro delle manette. Solo nel Penitenziario sollevò le palpebre e fissò gli acuti occhi neri sul volto del Direttore che, a sua volta, lo guardava attentamente e freddamente. Per una bizzarra combinazione il detenuto e il Direttore avevano lo stesso nome, probabilmente causato dal cognome e dalla vanità dotta dei due padri rispettivi: Cassio Longino! E lo sapevano entrambi: e il detenuto a cui l’esotico nome aveva spesso, nel suo lontano paese 11

d’oltremare, ove cassio significava sottana bianca, procurato più d’una caricatura, ora almeno provava l’amara soddisfazione di vedersi, per esso, distinto dai freddi occhi verdognoli del signor Direttore.

Sin dal primo sguardo i due uomini si dispiacquero: il Direttore, d’età incerta, era piccolo, un po’ curvo, con piccoli piedi e piccole mani magre che teneva costantemente nascoste entro le saccoccie del lungo soprabito di panno nero lucido. Nel suo viso terreo sbarbato una grande aria di sofferenza fisica che arricciava gli angoli della bocca pallida: negli occhi piccoli e verdi una fredda e quasi crudele indifferenza: sui capelli biondi perfettamente rasi due grandi orecchie erette.

Per tutto questo e perché era Direttore del carcere dispiacque al n. 245; e il n. 245 dispiacque al Direttore per la sua aria sdegnosa, per lo sguardo fiero con cui osò fissarlo, e per la sua forte e sana giovinezza.

Durante la consegna dei nuovi arrivati il Direttore non aprì bocca, e per più giorni Cassio, rinchiuso in una cella a pagamento non lo rivide. La sua inferriata dava a levante: triste occhio aperto in una delle pallide facciate dello stabilimento, guardava il lontano Appennino ancora nevoso e la campagna toscana a cui il marzo ridonava il verde lucente delle erbe e il verde pallido e quasi giallo delle prime foglie: nell’orto del Penitenziario, coltivato da reclusi in tenuta di tela e in berrettino rosso, Cassio, che per speciale permesso del Ministero teneva i suoi abiti signorili, vedeva i peschi fioriti d’un rosa intenso, e le delicate rose dei meli sparpagliate a mazzi sull’aria tiepida.

Egli rimaneva sempre presso l’inferriata, fremendo continuamente di dolore; i lunghissimi vespri velati lo lasciavano mortalmente stanco di angoscia; tuttavia non dormiva di notte, e sull’inspido giaciglio sentiva la percussione dolorosa del sangue tormentato. La mattina, quando la guardia, un lungo giovinotto la cui testa rossa spiccava sull’azzurro cinereo della brutta divisa, entrava per ripiegar la branda, Cassio era già in piedi, diritto davanti all’inferriata.

Fuori le prime rondini scendevano e salivano, con le ali e il petto brillanti al sole. Il detenuto non degnava la guardia d’una parola, non rispondeva ai continui richiami, ai piccoli fischi, all’agitarsi delle mani del suo vicino di destra, e, nell’ore di aria, quando veniva per un’ora portato al triste cortile, non badava a nessuno, con sdegnosa indifferenza passeggiando su e giù sul triste lastrico, umido di rugiada.

Nello stabilimento si sparse la voce che egli era un ricchissimo signore sardo, parente del Direttore, e siccome il Direttore era temuto ed odiato (nessuno dei detenuti sapeva però la cagione di questo odio e di questa paura, poiché l’ometto non aveva mai fatto loro del male tranne che col suo freddo sguardo indifferente), anche il n. 245, dopo una settimana dal suo arrivo, era odiato e, strana cosa, temuto.

Avendo chiesto permesso di scrivere, il primo aprile egli fu chiamato in Direzione; una stanza grigia desolata, arredata rigidamente: dalla finestra inferriata penetrava un rettangolo di sole pallido e scaccheggiato, sul cui chiarore muovevasi l’ombra d’un ramo lontano. Il Direttore lavorava curvo più che mai su un tavolo grigio: non si mosse, non si sollevò che dopo lungo tratto di tempo, durante il quale Cassio, ritto e rigido, con gli occhi fissi sull’ombra del ramo tremolante al sole, si rose di umiliazione.

Ah! Davanti agli altri, davanti a quella turba di delinquenti e di vilissime guardie, egli almeno poteva darsi la soddisfazione d’una certa dignità sprezzante: era più forte di coloro che lo legavano, più grande di quelli che sdegnava chiamar compagni di sventura: ma dinanzi a quel piccolo uomo sofferente e sprezzante doveva curvarsi, rispondere, umiliarsi.

- Ella, - gli disse bruscamente il Direttore, voltandosi senza levarsi, -

condannato a tre anni di semplice detenzione per falso, può scrivere solo una volta al mese.