La sua voce era un po’ fessa, ma l’accento puramente toscano.
- Lo so, - rispose Cassio, - ma non ho chiesto semplicemente di scrivere al mio paese, ma di poter scrivere per conto mio, nella mia cella.
- Impossibile, per ora. Perché non chiede d’esser ammesso nell’ufficio degli scrivani?
- Se è possibile esservi ammesso!…
- Possibilissimo.
12
Cassio fece la domanda lo stesso giorno, e l’indomani fu ammesso all’ufficio, ove l’abbondantissimo lavoro era malamente sbrigato da altri tre detenuti. La stanza, attigua alla Direzione, era ancor più grigia e desolata di questa, e i tre scrivani, il primo grasso e calvo con piccoli occhi azzurri cisposi, il secondo biondo, pallidissimo e con un profilo quasi diafano, e il terzo un giovane alto, tarchiato, con una forte testa bruna ricciuta e un volto raso da imperatore romano, fecero cattiva impressione al nuovo venuto. Essi parevano rassegnati e quasi lieti della loro melanconica sorte: Cassio invece provò un disgusto profondo, accresciuto da quella stupida rassegnazione dei tre compagni di sventura, uno schianto di impotente disperazione, e si pentì della sua domanda. Meglio restar nella sua cella, con le mani protese al sole dell’inferriata, davanti al lontano Appennino che gli ricordava le patrie montagne risuonanti del nitrito del suo puledro nero slanciato alla caccia del muflone, solo con la sua condanna e col suo dolore.
Il detenuto dalla testa ricciuta, più ardito degli altri due che si contentavano di guardarlo alla sfuggita, cercò subito far conoscenza, in modo rispettosissimo. (Sapevano che aveva il nome del Direttore e la voce corsa fra gli altri detenuti).
- Ella è sardo?
- Sardo - diss’egli freddamente.
- Poiché la sorte ci ha avvicinato in questo luogo, permetta…
- Bella sorte! - disse Cassio amaramente e troncò il complimento che il disgraziato voleva rivolgere al presunto gran signore sardo. E non disse nulla di sé, e non chiese nulla degli altri.
Tre giorni dopo arrivò per lui dalla Sardegna una lettera quadrata ed elegante, in busta avorio; la scrittura era alta e sicura, una indefinibile fragranza esalava dai fogli grandi e lucenti. Il Direttore l’aprì e la lesse con una certa trepidanza, non confessandosi che l’aveva aspettata.
Dopo tutto egli era uomo, giovine ancora; aveva molto sofferto e molto amato, e se i suoi dolori particolari gli avevano lasciato quella profonda indifferenza, che passava per crudeltà, per le infinite miserie su cui gli toccava dominare, un pezzetto di cuore e di sentimento umano gli restava ancora. Se il n. 245
fosse stato un povero diavolo come quasi tutti gli altri detenuti, nonostante l’omonimia interessantissima, il Direttore dopo il primo giorno avrebbe lasciato correre; ma il bel giovane fiero e distinto che veniva quasi circondato da una leggenda, attirava l’attenzione di tutti, e quindi anche la sua.
E le bizzarre voci correnti per le lugubri celle e nei tristi ambulacri dello Stabilimento, erano giunte anche a lui.
Il dubbio che in esse ci fosse qualcosa di vero - Longino, infatti, non era un cognome sardo - aveva per un momento fatto sfavillare la verde indifferenza dei piccoli occhi: ed ora essi s’animarono di nuovo leggendo la lettera.
Ma nulla di particolare essa conteneva: era una sorella, nata da un secondo matrimonio della madre di Cassio, che scriveva. Un affetto intensamente pietoso vibrava nei quattro fogli, una dolcezza senza nome, una suggestione soavissima di conforto e di rassegnazione.
«Fatti coraggio, Cassio, non disperare, non soffrire troppo: pensa che siamo soli nel mondo, soli ad amarci e a sperare l’uno nell’altro. Il tempo passerà, e quando Dio vorrà riunirci io saprò ricompensarti dell’immenso sacrifizio che tu facesti per me. Non umiliarti, non disperarti; i buoni sanno che la tua colpa è stata un eroismo…».
- Anche? - pensò il Direttore. - Tutti i condannati sono innocenti, sono vittime, ma che siano anche eroi?
Eppure quella lettera, tanto diversa dalle volgari epistole che giungevano al Penitenziario, così buona, fine, delicata e amorosa, lo fece pensare.
Lo prese una curiosità morbosa di sapere, di conoscere, contro cui invano tentò lottare. E contro la sua volontà riluttante, nonché contro i Regolamenti di cui era scrupolosissimo, fece chiamare il n. 245 per consegnargli la lettera in Direzione.
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