E non giunse neppure alcuna lettera; ed era tanto tempo che aspettava! Quanto tempo? Quasi un mese. Che accadeva laggiù, dietro il mare arso dal sole, laggiù, fra le montagne ove il timo olezzava nei purpurei tramonti solitari? Paola doveva esser malata, se taceva così a lungo: o lo dimenticava?

Cassio ricadde nella indicibile disperazione dei primi giorni: chiese il permesso di telegrafare, ma non l’ottenne; a mala pena gli fu concesso di scrivere due giorni prima che spirasse il mese dacché ultimamente aveva scritto.

La sua lettera era così triste e scorata che il Direttore sentì più che mai acuto rimorso del suo reato: da due settimane egli viveva una vita infernale, e mentre ai reclusi pareva più odioso e crudele di prima, egli li fissava con insolita profondità umana nei piccoli occhi verdi. Sapeva, capiva finalmente come l’uomo può, contro la sua volontà, esser trascinato al reato. Leggendo la lettera dolente del n. 245 si domandò ancora:

- Ma perché non chiedono la grazia? -. E questa volta non s’adirò per questo pensiero, anzi vi ritornò sopra, formulandolo meglio. Respinse però l’idea che la pietà per il n. 245 non gli venisse destata solo dal rimorso ma da un sentimento più occultamente egoistico, dalla speranza di poter presto parlar liberamente col detenuto - non più tale - e dirgli:

- Signore, io sono uno sciocco, e perciò non so come né perché, in sì breve tempo, mi sono stoltamente innamorato di vostra sorella, sebbene non abbia la fortuna di conoscerla. Volete darmela in isposa?

Paola telegrafò, e rispose tosto mandando in raccomandata un secondo ritratto.

Nella sua fine bontà, per non destar inutili collere nel povero detenuto, fece vedere di non aver spedito altra fotografia e di non aver potuto scriver prima per molte ragioni che pazientemente addusse: principale quella di non essersi potuta fotografare prima.

- Com’è buona! - pensò il Direttore, ammirando tanta finezza; e in un impeto di entusiasmo fu per scriverle e rivelarle ogni cosa. Ma naturalmente non lo fece, ed ebbe molte tristi idee. - Mi crederà un matto, e avrà paura per suo fratello.

Passò anche il rimanente estate e s’inoltrò l’autunno: reclusi partivano e reclusi arrivavano: nell’ufficio degli scrivani i tre continentali sembravano più che mai rassegnati, talvolta anche allegri, destando un maledetto disgusto nel sardo che pure, in fondo in fondo, era rassegnato anche lui. Solo, nella dolcezza dell’autunno, nelle roride aurore dal cielo ineffabilmente puro, nei lunghi tramonti che sbattevano il loro riflesso d’oro rosso fin sulle lugubri pareti dell’ufficio, egli sentiva tormentosa la nostalgia della patria e della libertà. E fremeva come puledro tolto ai liberi pascoli e chiuso in mefitica prigione: ma sapeva domare le sue intime ribellioni, e talvolta s’immergeva così profondamente nella speranza e nel sogno dell’avvenire che il presente gli pareva già passato. Però quando giunse l’inverno e dagli Appennini neri di nebbia salirono a torme le nuvole, e la pioggia sgranò le sue incessanti lagrime irose contro le facciate dello Stabilimento, Cassio sentì i suoi nervi tendersi dolorosamente come corde indurite dal freddo. Di giorno, nella luce livida dell’ufficio, le tre teste degli scrivani, i tre volti grigi di freddo, i piccoli occhi azzurri cisposi, il profilo diafano del biondo, la testa da imperatore romano, gli apparivano come in tormentosa visione, destandogli un desiderio istintivo, brutale, di afferrare qualche cosa e percuoterla con tutte le sue forze contro quegli occhietti in modo da creparli, contro quel profilo in 16

modo da schiacciarlo, contro quella testa in maniera da spaccarla. Questo desiderio cresceva di giorno in giorno: talvolta era così intenso che Cassio provava la strana, brutale sensazione di averlo realizzato; i muscoli delle sue braccia si rallentavano, un leggero brivido di orrore gli ondeggiava per le vertebre. Poi, rientrato in cella, rideva amaramente fra sé della strana ossessione, e capiva di odiare i tre disgraziati scrivani perché gli rappresentavano, in quei terribili giorni invernali, tutta l’umanità e tutta la natura che lo torturavano e contro cui il suo organismo si rivoltava. Di notte, anche non dormendo, riposavasi alquanto. Fuori il vento scrosciava colla suggestionante sonorità di torrenti lontani. Nel perfetto buio, in quell’armonia selvaggia, Cassio perdeva la percezione del tempo e ricordava e sperava. Nel lettuccio, alla cui asperità le membra s’erano adattate, alitava un grato tepore, e, almeno, era cessata, col venir dell’inverno, la straziante molestia di certi animaletti rossi. Buone visioni rasserenavano l’infelice: la sonorità ondulata del vento gli delineava le care montagne lontane; la traccia del cinghiale tra le felci verdi; poi il fiume glauco, le pernici saltellanti fra gli oleandri in fiore: e fra ogni cosa tremolava il nitrito del suo puledro nero e sopra ogni cosa splendeva il sorriso di Paola.

Ma al grigio apparir del giorno la dolcezza dei sogni notturni rendeva più amara la realtà: egli avrebbe finito con lo sfogarsi morbosamente contro i tre disgraziati compagni, se un giorno non l’avessero provvidenzialmente chiamato in Direzione.

Il signor Direttore si degnava chiedergli un favore: gli avevano regalato una pianticella aromatica, un ciuffetto di filamenti duri e secchi qua e là rinverditi da microscopiche foglioline d’un’acuta e caratteristica fragranza; proveniva dalla Sardegna, e quindi chiedevasi al detenuto se la conosceva e poteva indicarla perfettamente.

Cassio immerse le sue magre e bianche dita tra i filamenti castanei e aggrovigliati della pianticella, e l’annusò chiudendo un po’ gli occhi. Ebbe, dal profumo, la visione dei grandi pascoli montani del Gennargentu: un fremito di triste nostalgia gli tremò fra le sopracciglia.