- Voi avete veduto - disse loro Sarvatore. - Questo pellegrino noi non lo uccideremo, non è vero, e non lo denunzieremo neppure, non è vero? Martinu Selix, tu mi servirai gratis, tu mi farai il servo per altrettante settimane quanti alberi hai assassinato.

La strana sentenza echeggiò potente nella gran pace rorida della valle. Martinu Selix proseguì il suo pellegrinaggio; ma al ritorno entrò come servo in casa dei superbi Jacobbe, e per tre anni subì il suo castigo morale e materiale.

ZIA JACOBBA

Questa che parrà una storiella da focolare (così noi chiamiamo le fiabe), è invece una storia vera, accaduta in un villaggio della Baronia di Sardegna.

Quando avrò detto che ai tempi di Tolomeo questo villaggio, - ora fra i più miseri del Nuorese, - era fra le città più opulente delle colonie romane, forse ne saprete qualche cosa.

Quando aggiungerò che il nostro governo ha già messo all’asta quasi tutte le case e i terreni di questo villaggio, per l’imposta che i miseri abitanti non riescono a pagare, voi che nei giornali avete letto la strepitante notizia di un comune sardo messo all’asta, ne saprete quanto me.

Questo accade però: si fa l’asta; vengono espulsi gli abitanti coi loro stracci, che restano più o meno sulla via. Nessuno si presenta all’asta e tanto meno alla subasta; cosicché gli stabili vengono aggiudicati al demanio. Si fa egregiamente e regolarmente ogni cosa, ma appena i funzionarî hanno terminato la cerimonia e se ne sono andati, gli espulsi rimettono entro le case, - che hanno aperture poco solide, - le loro mobilie, e tornano ad abitarvi tranquillamente, in barba al demanio che non se ne accorge o non vuole accorgersene.

Lo stesso avviene delle terre: i proprietarî continuano a coltivarle senza essere più molestati dal commissario; talché molti finiscono col lasciarsi subastare i terreni per non pagare più imposte, che, a dir la verità, sono superiori alle rendite.

Così la buona parte degli abitanti sarebbe pressoché felice, - liberatasi dall’incubo dell’esattore, - se le piene, il sole, e sopratutto la malaria non facessero le vendette di quel flagello dell’umanità, chiamato elegantemente

“messo erariale”.

Della miseria poi non si parli. In primavera molti Baroniesi tolgono le tegole dai loro tetti e le vendono a Nuoro: riusciranno nel prossimo inverno a ricoprire la loro stamberga? Quesito difficile a risolversi; per cui lo lasciamo lì.

E tutto questo sia detto per l’ambiente.

Ora, fra le catapecchie espropriate nel ‘93 c’era quella di zia Jacobba Varche.

Messa tre volte all’asta per L. 3,72, e nessuno presentatosi, il gran palazzo restò al demanio. Nel frattempo zia Jacobba era stata a Nuoro; al ritorno si diresse senza esitare alla dimora già sua e vi rientrò tranquillamente.

Tranquillamente per modo di dire, giacché zia Jacobba aveva la morte nel cuore.

Un continuo fremito di tristezza le scomponeva la povera faccia gialla.

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Ma il suo dolore era causato da ben altra disgrazia. Sentite la storia di zia Jacobba Varche.

Ella era una povera donna, misteriosa e bizzarra, sulla cinquantina. Come quasi tutte le povere donne della Baronia, soffriva le febbri miasmatiche, tanto più che passava le giornate nelle paludi, tra le verdi acque stagnanti, pescando sanguisughe. Pescando per modo di dire; perché tuffava le gambe nell’acqua malefica, aspettando che le sanguisughe vi si attaccassero ferocemente. Ella poi si curvava, staccava dalle sue povere carni lo schifoso animaletto e lo introduceva a viva forza entro un’ampolla verdognola, a metà colma d’acqua.

Dopo la morte del marito, zia Jacobba e Chianna (Lucia Anna), la sua piccola figlia, vivevano di questo mestiere. Con l’ampolla verdognola entro cui le sanguisughe s’allungavano e restringevano continuamente, la povera donna recavasi a Nuoro e nei villaggi. Chianna intanto, nella casetta nera, filava del lino con un fuso più lungo di lei, e dava attenzione al porchetto e alle galline.