Siccome il porchetto litigava spesso con le galline, le quali a dire il vero erano molto impertinenti e gli beccavano le mosche persino negli occhi, Chianna, dopo avergli dato da mangiare, lo metteva entro un sacco, ridendo delle sue strida. Le galline si disponevano in circolo, guardavano l’agitato sacco con un solo occhio, tondo, fisso, rosso, e parevano ridere anch’esse. Qualcuna poi starnazzava le ali, camminava lesta lesta, facendo un certo picchiettìo coi suoi passettini, e andava a beccar le mosche proprio sul sacco. Il porchetto raddoppiava le sue strida; Chianna ritornava a filare cantando.
Ritornando zia Jacobba trovava il paiolino che bolliva, il suolo spazzato, il porchetto quieto entro il sacco, le galline sedute a far le uova, e Chianna che filava cantando.
La benedizione di Dio era in quella povera casetta nera: la caffettiera non mancava ogni giorno di saltar ballando sul focolare.
Zia Jacobba si sentiva felice, nonostante le sue febbri, alle quali infine c’era avvezza. Ogni volta che ritornava dalle paludi o dai suoi viaggi, provava una indicibile gioia rivedendo Chianna, e le copriva la testina di baci, chiamandola la pulcina dalla cresta d’oro, oppure la sua santina d’argento. Infatti il visino della piccina rassomigliava a quello di certe madonnine pisane che s’incontrano in qualche vecchia chiesetta sarda.
Zia Jacobba invece era molto brutta, vieppiù deformata dalla febbre che le gonfiava lo stomaco. Il suo corsetto di velluto nero, poi, sembrava coperto dal fango verdastro delle paludi; e le sue babbuccie di cuoio, non conservando più né forma né colore, dicevano lo strazio delle lunghe leghe percorse sulla polvere marmorea degli stradali, sotto il crudele cielo di acciaio azzurrognolo, luminosamente cinereo nelle ardenti lontananze.
Le vicine volevano bene a Chianna, ma parlavano male della madre, e dicevano strane cose sul suo conto. Il fatto era questo: zia Jacobba era linguacciuta e guardava tutti con gli occhi torvi. Ora, siccome l’amore si ottiene solo a forza d’amore, zia Jacobba non ne otteneva punto.
Per fortuna poteva campare sul suo; altrimenti nessuno le avrebbe dato un sorso d’acqua. Tutte parlavano male di lei: e dicevano che avesse relazioni col diavolo. Uhm! Questo è nulla, perché veramente qual è la donna che non ha relazioni col Maligno? Ma si diceva anche, - e questo era il più, - che zia Jacobba avesse relazioni personali con gli spiriti delle rovine di Castel Roccioso, fra le quali, a quanto pare, vivono ancora le anime delle antiche baronesse e dei rispettivi baroni.
Diceva zia Sebia (Eusebia), quell’anima perduta, che più che aver relazioni col diavolo gli aveva venduto l’anima, quella donna alta, scarna, con gli occhi verdi e le labbra grosse sporgenti, che stava in fondo al vicinato:
- Quando comare Jacobba fa vedere d’esser a Nuoro o in casa del diavolo, per vender la sua pesca, è invece al castello, facendo la serva a loro, lavandoci i panni, portandoci le legna ed altre cose ancora.
Zia Jacobba, però, poco si curava delle cattive lingue. La felicità di casa sua era superiore ad ogni cosa. Chianna era tutto il suo mondo; fuori di Chianna non c’era per lei altro al mondo.
26
Ora avvenne una cosa tremenda. Chianna buscò le febbri: anche il suo visetto di smalto antico si deformò, anche il suo piccolo stomaco si gonfiò, quasi un mucchio di rane palustri color giunco v’avesse preso abitazione.
Un giorno le vicine videro zia Jacobba e la piccina avviarsi verso lo stradale.
- Dove andate, comare? - chiese zia Sebia.
- A Nuoro, per curare questa bambina - zia Jacobba rispose con profonda tristezza (il porchetto e le galline erano state vendute).
Zia Sebia rise con gli occhi verdi scintillanti. Come mai quelle due potevano andar a Nuoro; come potevano neppure arrivarci?
Eppure si seppe più tardi che eran salite in vettura per arrivarci, e che a Nuoro il medico visitava Chianna quasi fosse stata figlia di signori.
Lungo tempo zia Jacobba restò lontana; in modo che le nottole e i sorci davano ogni sera meravigliose feste da ballo entro la casetta. Il fuso di Chianna fu tutto rosicchiato e sul paiolino brillò il verderame.
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