Poi l’esattore mise tre volte all’asta lo stabile, per lire tre e centesimi settantadue di imposte arretrate.
Spero vi ricorderete il resto.
Ma zia Jacobba ritornava sola perché Chianna era morta.
Il focolare era spento; la cenere sembrava polvere. Le grigie tende dei ragni tremolavano qua e là per gli angoli e sotto il tetto come i sottili merletti fiamminghi di cui deve essere adorna la Desolazione. Il sacco del porchetto era tutto trapuntato; e i sorci cominciavano già a ricamare la coperta del letto, povera coperta di lana a striscie gialle e nere, filata e tessuta vent’anni prima da zia Jacobba, per il corredo nuziale.
La povera donna pianse lungamente, finché nei suoi occhi non restò una lagrima e nella sua gola un singulto.
Non doveva esser vera la sua relazione col Maligno, perché in tal caso gli avrebbe venduto l’anima pur di riaver la figliuola.
I giorni scorrevano tetri e lenti, in una profonda miseria di pane e d’affetti.
E il dubbio che Chianna fosse morta per forza di qualche malefica magia, metteva una continua febbre nelle pupille della povera donna. I sortilegi per il danno o la morte delle persone odiate si eseguivano con statuette di sughero, flagellate di chiodi e d’aculei, e collocate in luogo sotto il quale o sopra il quale la persona presa di mira passasse. L’effetto era sicuro e terribile: per magico incanto i chiodi e gli aculei pungevano il corpo del malcapitato, causando malattia e morte. Ritrovando la magia e disfacendola, la persona poteva salvarsi; non così se non veniva ritrovata o, se ritrovata, gettata sul fuoco senza estrarne i chiodi.
Negli ultimi giorni della malattia di Chianna, qualche pia persona aveva insinuato il dubbio d’un sortilegio.
Ritornata nel suo paese, zia Jacobba pensava, più che a riprendere una vita ormai rotta e disfatta, a scoprir la malìa e vendicarsi.
Cercò sopra il tetto, sotto il suolo, nella porta, in ogni ripostiglio. Invano.
Non trovò che vermi, tarli, sorci; tutte cose che, sebbene malefiche, non potevano essere magie.
Allora, insensibilmente, si avvicinò alle vicine di casa, comunicando loro il segreto ed aizzandole l’un l’altra per saper qualche cosa.
- Ha perduta la ragione - dicevano le vicine fra i loro pettegolezzi.
Ma un giorno zia Jacobba disse a più d’una, sempre in segreto:
- Se riesci ad aiutarmi ti do due scudi -. E li mostrò sulla palma della mano.
Erano d’oro, rotondi e gialli come una piccolissima luna!
La notizia si sparse. E allora zia Jacobba non aveva più perduto la ragione, e le vicine si guardarono in cagnesco, e si diedero a cercar la magia con accanimento, quasi i chiodi li avessero loro sul corpo, e cominciarono a spiarsi e lacerarsi. Ma nessuna trovava nulla. E zia Jacobba si persuadeva che Chianna era morta di mal di Dio, quando un giorno venne a trovarla Pottoi (Maria Antonia), figlia di zia Sebia.
Pottoi era stata un po’ amica e comare di Chianna: aveva la stessa età, ed era bellina anch’essa, coi capelli d’un biondo ardente, bruciati dal sole, e gli occhi verdi come quelli di sua madre.
- Io so chi ha fatta la magia e dove si trova - disse.
- E non potevi squarciarti prima? - gridò zia Jacobba.
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- Eh, non pigliatevela con me, zia mia! Altrimenti non dico nulla.
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