Le Undicimila Verghe
Guillaume Apollinaire
LE UNDICIMILA VERGHE
A CURA DI LILIANA BUCELLINI PER TELESOFTWARE - 1998.
Guillaume Apollinaire è nato a Roma nel milleottocentottanta ed è morto a Parigi nel millenovecentodiciotto. Il nome, col quale è universalmente conosciuto, è lo pseudonimo di Wilhelm Apollinaris. E’ figlio naturale di una nobildonna polacca e di un italiano ex ufficiale borbonico, ed ha vissuto i suoi primi anni fra Roma, Monaco, Nizza, Cannes e Lione. Si stabilisce a Parigi nel millenovecentodue e partecipa alle più grintose e vivaci batta-glie artistiche del suo tempo. Fonda riviste e scrive cronache d’arte. Fu il primo a presentare, nel millenovecentootto le opere di Matisse e ad appoggiare la “rivoluzione” cubista con un suo scritto celebre: “I pittori cubisti”, del millenovecentotredici.
In questo stesso anno entra in contatto con l’italiano Marinetti e scrive il manifesto “L’antitradizione futurista” e d’ora in poi sarà sempre pronto a cogliere l’importanza di artisti dalle ten-denze anche molto diverse, da Delaunay a Picabia, a De Chirico.
Arruolatosi nel millenovecentoquattordici e successivamente inviato al fronte, nel millenovecentosedici è ferito alla testa, ma sarà la febbre spagnola a portarlo via, al di là della vita, nel novembre del millenovecentodiciotto.
Apollinaire è autore di numerose opere in prosa.
Vi ricordo “L’incantatore imputridito”, i racconti riuniti in
“L’eresiarca e C”, “Il poeta assassinato”, ma la sua fama internazionale resta pur sempre affidata a due raccolte poetiche, “Alcools”, del millenovecentotredici, e “Calligrammi”, del milleno-vecetodiciotto. Il primo, Alcools, raccoglie cinquanta componi-menti rappresentativi di una produzione che va dal milleottocen-tonovantotto al millenovecentotredici. Accanto a poesie ostenta-tamente moderniste quali “Zona” o “L’Emigrante di Lander Road”, in cui il discorso poetico tende a frantumarsi, procedendo per accumuli di materiale tratto dall’attualità la più provocatoria possibile, ce ne sono altre, più pure e lineari che ripropongono ritmi e temi neoromantici o che si servono di modelli già collau-dati del post-simbolismo. “Calligrames” raccoglie ottantasei
“poesie della pace e della guerra”.
Forse il momento più avanzato della ricerca formale di Apollinaire, è nell‘“Ideogramma lirico” dove l’autore sfrutta le potenzia-lità figurative dei segni verbali, e in una giusta posizione di frammenti di dialogo tende a riprodurre le molteplici sfaccettature del reale, con un ritmo accelerato del testo “simultaneo”, che trova il suo equivalente nella tecnica compositiva del cubi-smo e spinge le immagine in libertà sulle soglie del surrealismo.
Di sicuro, l’originalità e i veri tratti della sua poesia vanno soprattutto ricercati in quel parlato continuo, nella discorsivi-tà ininterrotta che, aiutati da una libera sintassi poetica, uni-scono con singolare armonia i differenti versanti della sua spe-rimentazione.
Nel lungo racconto che presentiamo, celebre e dannato, il nostro autore racconta, con un frenetico linguaggio che va dall’erotico al pornografico, tutte le possibili ed inimmaginabili fantasie (imbrigliate sul tema del sesso spinto sino all’estremo) apparte-nenti ad un immaginario soprattutto maschile che ancora oggi per-dura: sesso portato anche alle sue estreme conseguenze, racconta-to con spavalda disinvoltura in tutte le sue più sconvolgenti sfaccettature: amore violento, attrazione fatale verso la morte, rapporti omosessuali, incesti e, neppure minimamente mascherate, una schiera di perverse forme di sadismo e sado-masochismo; il tutto narrato con una sincerità (e a-moralità) davvero sconvol-gente e una modernità di linguaggio che sebbene sia tremendamente pornografico e volgare, ha reso celebre il suo libro che, al di là di tutto, è diventato, nel suo genere, una specie di ‘classi-co’.
GLI AMORI DI IN OSPODAR
(parte 1)
Bucarest è una bella città dove si direbbe che vengono a mesco-larsi tra loro l’Oriente e l’Occidente. Siamo ancora in Europa, dal punto di vista della situazione geografica, eppure già in Asia rispetto a certi costumi del paese, ai turchi, ai serbi e ad altre razze macedoni di cui si scorgono per le strade esemplari pittoreschi. Eppure è un paese latino e i soldati romani che co-lonizzarono il paese indubbiamente avevano il pensiero costante-mente rivolto verso Roma, allora capitale del mondo e capoluogo di tutte le eleganze.
Questa nostalgia occidentale si è trasmessa ai loro discendenti e i romeni pensano di continuo a una città in cui il lusso è naturale, in cui la vita è allegra. Ma Roma è decaduta dal suo splen-dore, la regina delle città ha ceduto la sua corona a Parigi; e che c’è di strano se, per un fenomeno atavico, i romeni pensano in continuazione a Parigi, che ha cosi’ bene sostituito Roma alla testa dell’universo?
Come tutti gli altri romeni, il bel principe Vibescu sognava Parigi, la “Ville-Lumière”, dove le donne, tutte belle, sono anche tutte di coscia leggera. Quando era ancora in collegio, sempre a Bucarest, gli bastava pensare a una parigina.
perché il membro gli si indurisse e fosse costretto a farsi lentamente e beatamente una sega. Più tardi s’era sfogato in tante vagine e tanti sederi di deliziose romene, ma, se ne rendeva conto molto chiaramente, quel che ci voleva era una parigina.
Mony Vibescu era di famiglia ricchissima. Suo bisnonno era stato hospodar - come dire, in Francia, sottoprefetto. Ma questa digni-tà si era trasmessa al nome di famiglia, e il nonno e il padre di Mony si erano entrambi gloriati del titolo di hospodar. Mony Vibescu aveva dovuto portarlo anche lui in onore dell’avo.
Ma aveva letto abbastanza romanzi francesi per poter rider dietro ai sottoprefetti: “Suvvia, diceva, non è ridicolo farsi dire
“sottoprefetto” perché lo è stato un vostro avo? E’ semplicemente grottesco”.
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