Tosto i saraceni sbarcarono e salirono sul monte, ma mentre stavano per piombare sul villaggio si fermarono paurosi a guardare. Vedevano una immensa fila di persone vestite a vivaci colo-ri, con in mano strani bastoncini bianchi e croci e randelli e bandiere, sfilare per le vie di Dorgali, incamminandosi come alla montagna. Era una processione. Ma ai saraceni, per volere della Madonna, la processione, così veduta dall’alto e da lontano, parve un esercito di soldati armati che si pre-parasse ad inseguirli e disperderli. Perciò si diedero a precipitosa fuga e qualcuno restò appiccato per i capelli agli alberi della montagna. Uno di questi alberi mi pare anzi che si chiami ancora ed appunto del saraceno.

Questa è la leggenda gentile dei monti di Dorgali, immortalata da una delle punte principali, che in memoria di tal fatto si chiama della guardia ( de sa Bardia).

La nascita delle leoneddas (vecchia leggenda musicale)8

Poco distante dalla riva del mare un antico pastore pascolava le sue gregge.

Era in un tempo lontanissimo, in una primavera quasi preistorica; ma il paesaggio era quale ancora si ammira adesso, una fresca pianura verde, chiusa da montagne quasi nere sul cielo d’un azzurro chiaro, e lambita dal mare; la capanna del pastore era eguale alle odierne capanne dei pastori sardi; e lo stesso era il pastore, vecchio ma ancora possente, coi lunghi capelli e la lunga barba gial-la, gli occhi neri circondati di rughe, e vestito di rozzi pannilani e di pelli.

Il vecchio si chiamava Sadur, (ed io non so l’etimologia di tal nome, ma ritengo che da questo provenga il moderno Sadurru, che poi vuol dire Saturnino) e viveva con la moglie ancor giovane e la figlia Greca.

Qua e là per la pianura sorgeva qualche altra capanna e viveva qualche altro pastore.

Donde venivano quei primi sardi, con le loro donne piccole e brune, e con le gregge ancora sel-vatiche?

Forse i padri loro erano venuti anch’essi dalle coste d’oriente, con barche di predoni; e dico an-ch’essi perché, di tanto in tanto, sul mare argenteo disegnavasi l’ala rossastra di qualche vela fenicia, sbarcava un gruppo d’uomini pallidi, vestiti di corte tuniche grigie, coi sandali ai piedi e in testa un berretto a cono. E si spandevano sulla pianura come un turbine e incendiavano le capanne, predava-no ciò che potevano, sgozzavano le pecore e banchettavano sotto gli alberi.

Sadur nutriva un odio feroce contro questi sgraditi visitatori, che l’avevano più volte rovinato.

Spesso s’era salvato con le donne e il gregge sulle montagne, ritornando alla pianura quando le vele rosse sparivano lentamente all’orizzonte, nei violacei crepuscoli marini; ma ora vedeva avvicinarsi con dolore l’estrema vecchiaia e sentiva tristemente svanir le sue forze.

Chi avrebbe salvato oltre le sue donne e le sue gregge?

Egli sedeva melanconicamente sul limitare dell’ovile, e guardava inquieto la linea chiara del ma-re.

Da qualche tempo, però, anzi da qualche anno, nessuna disgrazia aveva turbato la vita di quei primi pastori sardi. Solo, dall’interno dell’isola, giungeva, di quando in quando, qualche negoziante primitivo. Recava frumento, legumi, pannilani, frutta secche, armille e altri gioielli di bronzo: in cambio riceveva lana, miele, formaggio, unghie di pecora, e ripartiva.

Le donne macinavano il frumento fra due pietre, cuocevano le focacce, cucivano le vesti.

Sadur guardava le gregge, e fissava gli occhi nel mare. Nonostante la pace di quegli ultimi anni, non si sentiva tranquillo. I suoi occhi si indebolivano, i suoi denti ferini si muovevano entro le gen-give, le sue mani cominciavano a tremare.

Ciò era ben triste. Il suo unico conforto, spesso, era di suonare certi flauti di canna, molto rozzi e primitivi. Ne veniva fuori una melodia monotona, ma flebile, soave, che si smarriva come un lamento nel gran silenzio della pianura.

Quando suonava i suoi flauti di canna, Sadur dimenticava ogni sua tristezza; gli occhi suoi si raddolcivano, su tutta la sua selvaggia fisionomia si spandeva un’espressione di tenerezza e di bon-tà.

Al suono melanconico del suo flauto, Sadur sentiva il cuore empirsi di care ricordanze, tutto gli sembrava dolce, sognava di maritar Greca con qualche giovine gagliardo, di lasciar lei e la madre sotto una forte protezione, e di morir tranquillo, sotto una quercia, al sole di aprile.

8 Questa leggenda e la seguente “San Michele Arcangelo” sono state tratte da Onoranze a Grazia Deledda, a cura di M.

Ciusa Romagna, Nuoro-Cagliari, 1959.