Donde venivano quei primi sardi, con le loro donne piccole e brune, e con le gregge ancora sel-vatiche?

Forse i padri loro erano venuti anch’essi dalle coste d’oriente, con barche di predoni; e dico an-ch’essi perché, di tanto in tanto, sul mare argenteo disegnavasi l’ala rossastra di qualche vela fenicia, sbarcava un gruppo d’uomini pallidi, vestiti di corte tuniche grigie, coi sandali ai piedi e in testa un berretto a cono. E si spandevano sulla pianura come un turbine e incendiavano le capanne, predava-no ciò che potevano, sgozzavano le pecore e banchettavano sotto gli alberi.

Sadur nutriva un odio feroce contro questi sgraditi visitatori, che l’avevano più volte rovinato.

Spesso s’era salvato con le donne e il gregge sulle montagne, ritornando alla pianura quando le vele rosse sparivano lentamente all’orizzonte, nei violacei crepuscoli marini; ma ora vedeva avvicinarsi con dolore l’estrema vecchiaia e sentiva tristemente svanir le sue forze.

Chi avrebbe salvato oltre le sue donne e le sue gregge?

Egli sedeva melanconicamente sul limitare dell’ovile, e guardava inquieto la linea chiara del ma-re.

Da qualche tempo, però, anzi da qualche anno, nessuna disgrazia aveva turbato la vita di quei primi pastori sardi. Solo, dall’interno dell’isola, giungeva, di quando in quando, qualche negoziante primitivo. Recava frumento, legumi, pannilani, frutta secche, armille e altri gioielli di bronzo: in cambio riceveva lana, miele, formaggio, unghie di pecora, e ripartiva.

Le donne macinavano il frumento fra due pietre, cuocevano le focacce, cucivano le vesti.

Sadur guardava le gregge, e fissava gli occhi nel mare. Nonostante la pace di quegli ultimi anni, non si sentiva tranquillo. I suoi occhi si indebolivano, i suoi denti ferini si muovevano entro le gen-give, le sue mani cominciavano a tremare.

Ciò era ben triste. Il suo unico conforto, spesso, era di suonare certi flauti di canna, molto rozzi e primitivi. Ne veniva fuori una melodia monotona, ma flebile, soave, che si smarriva come un lamento nel gran silenzio della pianura.

Quando suonava i suoi flauti di canna, Sadur dimenticava ogni sua tristezza; gli occhi suoi si raddolcivano, su tutta la sua selvaggia fisionomia si spandeva un’espressione di tenerezza e di bon-tà.

Al suono melanconico del suo flauto, Sadur sentiva il cuore empirsi di care ricordanze, tutto gli sembrava dolce, sognava di maritar Greca con qualche giovine gagliardo, di lasciar lei e la madre sotto una forte protezione, e di morir tranquillo, sotto una quercia, al sole di aprile.

8 Questa leggenda e la seguente “San Michele Arcangelo” sono state tratte da Onoranze a Grazia Deledda, a cura di M.

Ciusa Romagna, Nuoro-Cagliari, 1959.

Egli aveva parecchi flauti, più o meno sottili, e ogni volta che suonava li provava tutti, ad uno ad uno.

Ciascuno aveva un suono particolare, e Sadur sapeva trarne diverse melodie.

Ora, nell’ultimo anno della sua vita, gli accadde questo fatto.

Era di maggio: un giorno egli se ne stava vicino al mare, quando con terrore scorse le vele fenicie a poca distanza dalla costa.

Tutto tremante corse dalle sue donne e disse loro:

«Ahimè, succede ciò che io da vari anni temevo. Non c’è che un mezzo per salvarci. Fuggite voi due con buona parte della greggia; avviatevi al nascondiglio che sapete. Io rimarrò qui con quindici o venti pecore: crederanno ch’io viva qui solo e si indugeranno a banchettare. Intanto voi potrete salvarvi, e, dopo la loro partenza, ci riuniremo».

Le donne partirono, piangendo, spingendo verso i monti il grosso della greggia; e il vecchio rimase. Finse d’esser quasi cieco e si mise a suonare.