A Nuoro, dove con la scusa di vendere le uova chiedeva qualche volta anche l’elemosina, tutti la conoscevano, e divenne anche più popolare per il caso strano accadutole una notte d’agosto.

Ella dunque viaggiava, attraversando la pianura, illuminata dalla luna, pei sentieri tracciati fra le stoppie, nelle tancas così melanconicamente poetiche, perfettamente disabitate e deserte.

A che pensava? È un po’ difficile dirlo, perché i suoi pensieri non avevano nesso: erano piuttosto frammenti di pensieri, brani di idee semplici che si sperdevano in uno sfondo incolore.

Sì, zia Biròra, che non era mai stata una donna allegra, quella notte provava una grande melanconia; si sentiva stanca; aveva sonno e non poteva riposare. Era stanca, stanca di quel suo viaggio che durava da trent’anni e non finiva mai.

Inoltre aveva come il presentimento d’una vicina disgrazia; ma giammai avrebbe creduto dovesse succederle così presto, così, fra dieci minuti, fra cento, fra dieci passi. Ecco, nel salire un piccolo rialzo che dai campi metteva sullo stradale, la vecchia mercantessa scivolò e cadde. Blum! fece il cestino, e le uova scricchiolarono e una cascata di paglia bagnata e di gusci bianchi inondò il piccolo rialzo.

La vecchia si rialzò, guardò pallida, stordita come se avesse ricevuto una mazzata sul capo. Tutto, tutto era perduto. Ella era rovinata per sempre. Si sedette sul rialzo e cominciò a piangere acco-ratamente, come una bimba di dieci anni.

Da qualche minuto stava così immersa nel suo dolore piangendo e lamentandosi ad alta voce, quando udì una voce sonora risuonare alle sue spalle.

«Donna!», diceva la voce, «Che cosa vi è capitato? Perché spaventate coi vostri pianti i tranquilli viandanti notturni?»

La vecchia guardò e vide, fitto sull’orlo dello stradale, circonfuso dalla luminosità lunare, un bellissimo giovine signorilmente vestito. Sulla spalla egli teneva un ricco fucile, la cui canna arabesca-ta brillava alla luna.

Zia Biròra lo credette un cacciatore e gli raccontò il miserevole caso.

«Da trent’anni», disse, «da trent’anni io viaggio, di giorno e di notte, per guadagnarmi un tozzo di pane. Ah, come sono misera! Non mi era giammai capitato di cadere: ma ora invecchio, le gambe si piegano, il sonno mi sorprende. Come farò ora?»

«Non avete parenti?»

«Nessuno, nessuno. Vivo sola come le fiere. Come farò ora? Quando chiedo l’elemosina mi dicono: Perché non avete lavorato? Ah, non sanno dunque che io ho lavorato più di qualsiasi altra creatura cristiana? Ecco, vedi i miei piedi? Vuoi vedere i miei piedi, giovine cacciatore?»

E preso un piede con entrambe le mani ne rivolse la palma verso lo sconosciuto. Costui si chinò a guardare, e vide quella povera palma di piede ridotta ad una specie di cuoio grossissimo, nero, screpolato, qua e là macchiato di sangue.

«È orribile», mormorò, come fra sé, «una povera vecchia camminare così.»

Zia Biròra era troppo furba per non profittare della pietà del viandante, sperando ch’egli le desse una buona elemosina, e riprese a narrargli le sue disgrazie, esagerandole magari un tantino. Egli ascoltava, pensoso, pizzicandosi il mento adorno d’una graziosa fossetta. Ad un tratto s’udì un passo di cavalli, in lontananza, nel silenzio dello stradale. Lo sconosciuto ascoltò intensamente, mentre traeva il portafogli dalla tasca interna della giacca. In un attimo prese un biglietto di banca, lo diede alla vecchia, rimise il portafogli, e sparì. Parve che il terreno l’avesse inghiottito, e zia Biròra provò uno strano sentimento di terrore, ma di terrore arcano, misto a gioia profonda. Senza avvedersene si trovò inginocchiata, col biglietto fra le mani giunte.

«Egli era un angelo», pensava, «era San Michele Arcangelo.