Levatasi, recitò la solita preghiera, poi si avviò verso una città che si scorgeva in lontananza, tra i vapori rosei del bellissimo mattino.
Cammina, cammina, vide un piccolo pescatore che, a piedi scalzi e con la lenza sulla spalla, si recava a pescare in certi piccoli stagni azzurreggianti là intorno. Gli chiese:
«Bel pescatore, in grazia, come si chiama quella città?».
Il pescatore non rispose, ma si mise a cantare:
Io pesco anguilla, e do la caccia all’oca;
10
Quella città laggiù si chiama Othoca .
«Be’», pensò Mariedda, «siamo ad Oristano.»
Cammina, cammina, entrò in città, e subito si diede a cercar una casa in cui potesse entrar come serva; ma inutilmente. Dopo tre giorni e tre notti di viavai da una porta all’altra, morente di fame e di stanchezza, non aveva ancora trovato padrona. Ma non disperava; e pregava, pregava sempre la bella Signora del Buon Consiglio, perché l’aiutasse.
Ora, al quarto giorno, passando davanti al palazzo reale, vide molta gente che parlava sommessa, pallida in volto e piena di dolore.
«Bel soldato», chiese ad un giovine armigero, triste anch’egli come il resto della folla, «che cosa avviene?»
«Sta per morire il figlio del Giudice di Arboréa, e nessun medico può più salvarlo.»
Il Giudice era il re di Arboréa; quindi il figlio era il principe reale, il più bel cavaliere di tutta la Sardegna.
Mariedda fu scossa dalla dolorosa notizia e stava per dire un’ Ave per il principe moribondo, quando, toccando i grani del suo rosario si ricordò con gioia che questo possedeva la virtù di guarire i malati.
Senza dir nulla, attraversò la folla e riuscì a penetrare nel reale palazzo; ma un capitano delle guardie la fermò, e le chiese con arroganza cosa voleva.
«Vengo a guarire don Mariano, il principe malato», ella rispose umilmente. «Ho una medicina meravigliosa che fa guarire anche i moribondi.»
10 Antico nome di Oristano.
Allora il capitano arrogante la introdusse presso il Giudice, un vecchio re dalla barba lunga fino alle ginocchia, al quale Mariedda dové ripetere le sue parole. Il Giudice restò commosso dalla bellezza della piccola sconosciuta, e più per la sua promessa, ma le disse:
«Bada, fanciulla dagli occhi di stella, se tu c’inganni, noi ti troncheremo la testa».
«E se salvo il principe?»
«Ti daremo ciò che vorrai.»
Ciò detto introdusse egli stesso Mariedda presso il principe morente. Era tempo. Ancora pochi istanti e tutto era perduto.
Ma la nipote di don Juanne Perrez mise il rosario intorno al collo del principe e, inginocchiatasi sulla pelle di cervo stesa davanti al letto, pregò fervidamente.
Allora tutti gli astanti, bianchi in volto e pieni di meraviglia, videro un miracolo straordinario.
Don Mariano riapriva gli occhi, i begli occhi castani dalle lunghe ciglia. A poco a poco le sue guance diventarono rosee come il fior degli oleandri dei giardini reali; la sua fronte rifulse di vita; sorrise; si alzò dicendo:
«Padre mio, io rinasco. Chi mi ha salvato?».
Il Giudice piangeva di gioia, piangeva tanto che la sua barba gocciolava di lagrime come un al-bero bagnato dalla pioggia.
«Ecco!», rispose, sollevando Mariedda.
«Tu devi essere una fata», disse il principe, abbracciandola. «I tuoi occhi hanno una luce di luna.
Tu sarai la mia sposa.»
Infatti, poco tempo dopo, cioè appena giunsero dalla Francia e dalle Fiandre i vestiti di broccato che stavano ritti da sé, tanto oro e argento avevano, e i veli e i manti per Mariedda, essa diventò Giudicessa d’Arboréa.
Ed era tanto felice che cominciò a dimenticare la raccomandazione di Nostra Signora del Buon Consiglio, cioè di pregarla e ricordarla sempre, anche nella buona fortuna.
Dopo un anno Mariedda aveva interamente dimenticato la sua Celeste Protettrice: il rosario miracoloso stava appeso nella reale cappella, fra altre reliquie e la Giudicessa scendeva raramente nella cappella, passando invece il tempo tra feste, cacce, tornei, e fra i canti e i liuti, e le mandole dei trovadori, che non mancavano nella corte degli Arboréa.
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