Lettera Al Padre
Franz Kafka
Lettera al padre
( Brief an den Vater, 1919)
Introduzione
di Italo Alighiero Chiusano.
La disperazione si racconta.
Chi ami la fiction, e in particolare la narrativa, e sappia che Kafka, oltre tante altre cose, è uno dei massimi narratori di tutti i tempi, potrà leggere questa Lettera al padre con un certo tipo di aspettativa: quello con cui, a suo tempo, ha affrontato la lettura di racconti o romanzi kafkiani. In quei casi mi sentirei di escludere che ne sia rimasto deluso: a meno che quel lettore sia del tutto sordo alla “musica” di Kafka, alla sua proposta narratologica, nel qual caso sconsiglierei anche la presente lettura.
Ma se i precedenti incontri con Kafka narratore hanno dato buon frutto, credo che anche questa Lettera possa offrire non poco in fatto di narrativa. Si pensi solo all’episodio del piccolo Franz esposto la notte, per castigo, sul ballatoio di casa davanti alla porta chiusa; al confronto tra le due fisicità, la possente e la mingherlina, del padre e del figlio, rivelate dalla nudità dei due nella cabina balneare; all’oppressiva descrizione di che cos’erano i pasti in comune in casa Kafka; all‘“educazione per mezzo dell’ironia”, alla “festa della cattiveria” con cui papà Kafka dà ai suoi figli, ma specialmente all’ipersensibile Franz, “la prima idea dell’inferno”; all’evocazione di quello spazio tutto particolare ch’era il negozio paterno, con gli usi che ci vigevano e le “torture” che vi si praticavano; al dolce ma non molto consolante ritratto della madre, protettrice sì dei figli e intermediaria tra loro e il genitore, ma in definitiva sempre dalla parte del marito; ai “medaglioni” delle tre sorelle di Franz (Valli, Elli, Ottla), sue compagne di maltrattamenti e di incomprensioni, cui reagirono o si piegarono in diversi modi ma pur sempre nel segno della sconfitta; al disegno della cugina Irma, esposta anch’essa, ma con migliori possibilità di sottrarvisi, alle prepotenze del solito Hermann Kafka; all’analisi precisa del modo con cui il padre trascurò di inculcare, se non in forma distratta ed esteriore, il patrimonio religioso dell’ebraismo a suo figlio; al tono drammaticamente narrativo col quale ci viene fatto sentire il modo con cui il padre, aprendo ferite sanguinanti o nascostamente purulente, affronta cose intimissime del figlio come la professione o il matrimonio (si veda solo la scenetta in cui Hermann, al figlio sedicenne disinformato sul sesso, si propone come “informatore” nel più volgare dei modi) o la brutalità con cui interpreta solo in chiave di eccitazione sensuale l’amore di Kafka per quella Julie Wohryzek che voleva sposare; a quella specie di monologo teatrale delle pagine conclusive, quando Kafka immagina come suo padre potrebbe rispondere alle sue obiezioni e accuse…
Nella Lettera al padre ce n’è davvero abbastanza, di narrativa con la enne maiuscola: assai più che in un’infinità di opere che si spacciano per romanzo o racconto, e che invece mancano totalmente di tensione, di architettura, di movimento, di colore, di personaggi. Del resto, chi conosce abbastanza l’opera narrativa di Kafka, in queste pagine trova più d’un’occasione per trasalire, quando una parola o una frase chiave (che so, “scarafaggio”,
“processo”, “temo che la vergogna gli possa sopravvivere”) lo riporta nel cuore di narrazioni kafkiane che ormai sono tra i classici della cultura mondiale.
Ma la narratività (o la drammaticità quasi teatrale) di questa Lettera non è data solo da lacerti di racconti o da squarci di dialogo, e nemmeno da allusioni più o meno velate a opere gloriose della narrativa kafkiana. Questo sapore, che a noi pare fortissimo, è diffuso ovunque e costituisce la vera caratteristica del presente scritto: che è, non meno che nelle novelle La condanna o La metamorfosi, uno scontro “sceneggiato” tra padre e figlio, oltre che una confessione autobiografica e un’autoanalisi psicologica da mettere accanto a quelle di un Agostino e di un Rousseau, di un Alfieri o di un Goethe, di un Amiel o di un Thomas Bernhard; naturalmente con un tocco di originalità e un background culturale etnico geografico assolutamente unici e imparagonabili.
Anche alcune caratteristiche tra esteriori e molto intime connotano questa Lettera come una creazione di lancinante unicità. Intanto il fatto che, a giustificarsi così di fronte a un padre insieme possessivo e sprezzante, per alcuni versi quasi criminale e per altri addirittura esemplare, non sia un ragazzetto minorenne, ma un uomo (e che uomo: Franz Kafka, già autore di svariati capolavori) di anni trentasei. Non meno straziante e al contempo pressoché grottesco è che una simile lettera - che pare il più pernicioso dei salti mortali senza rete, un “o la va o la spacca” che non consente resipiscenze né ritorni - non sia mai giunta tra le temute mani di Hermann Kafka. Era il 1919, Franz aveva già rotto due fidanzamenti con Felice Bauer, la poco avvenente signorina ebrea che il padre aveva approvato come nuora e alla quale l’illustre fidanzato aveva indirizzato uno dei più tormentosi epistolari di ogni tempo. Ora Franz, che sentiva nel matrimonio un approdo capace di dare un senso e un’onorabilità alla sua vita di artista e di “disperato”, pensava di sposare Julie Wohryzek. Ma Julie era la figlia di un calzolaio, che faceva anche il custode di una sinagoga di Praga. Il padre di Kafka, venuto su dal nulla e che anzi di questa “gavetta” si vantava volentieri, dissentì, e - al suo solito - in modo violento.
Già Franz lo aveva deluso diventando un essere umbratile e sofferente anziché, come lui, un vitalista sanguigno, dandosi agli studi e al lavoro d’ufficio invece di portare a più alte fortune il negozio paterno. Sposare anche un’ebreuccia proletaria no, a nessun costo.
A quel punto Kafka reagì, anche lui a modo suo, scrivendo questa lettera.
Come abbiamo già detto, una volta stesa la lasciò nel cassetto: paura di come il padre avrebbe reagito? sfiducia in qualunque reazione positiva da parte di quell’uomo fossilizzato nelle sue certezze? inutilità di attizzare altre polemiche, visto che ormai lui stesso (io penso, con intimo sollievo) aveva già rinunciato sia a Julie che al matrimonio in generale, oltre ad aver capito, da certi sbocchi di sangue a cui fa accenno in queste stesse pagine, che la tisi lo avrebbe condotto ben presto al liberatorio traguardo della morte? Non sappiamo. Forse fin dall’inizio Kafka sentiva che quella lettera non era indirizzata al padre oggettivo ed esterno ma a quello soggettivo e interno: un ennesimo colloquio con uno spettro interiore, l’ennesimo litigio e processo come da una controparte che lo opprimeva anche in sogno. Come si dice dei pazzi, insomma, Kafka “parlava da solo”: e questa lettera non sarebbe che un angoscioso soliloquio affidato alla carta scritta.
Noi, oggi, leggendo queste pagine, siamo fortemente indotti a parteggiare: ovviamente per il figlio geniale, la vittima, contro il padre ottuso, il carnefice.
È una tentazione quasi fatale, ma che va rifiutata.
Del resto, lo stesso Kafka non l’avrebbe gradita, tanto lui stesso, pur lanciando al padre accuse di enorme gravità, si premura tuttavia di mettere in luce i lati positivi del genitore, ma più ancora di evidenziare i lati negativi di se stesso.
È dunque consigliabile una lettura “morbida”, che non cada in nessun genere di manicheismo. I buoni e i cattivi, in questo scritto, non sono divisi da un taglio netto, così come non lo sono i felici e gli infelici. Se mai si potrebbe ritenere che tutti, padre figli moglie, sono ugualmente infelici, che tutti nutrono ottime intenzioni pessimamente realizzate.
Fino a qualche anno fa molta parte dell’intelligencija europea avrebbe risolto semplicisticamente la questione parlando di decadenza della famiglia borghese, di infernalità dell’istituto stesso della famiglia, e invocando una rivoluzione politica e di costume che facesse piazza pulita di quel torbido mondo e donasse agli uomini la loro libertà e autonomia. Oggi siamo meno ottimisti (o faziosi, che spesso è la stessa cosa).
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