Cercate di dirmi di che si tratta.»
«Credo che ci sia qualcosa di vergognoso», disse Poole con voce rauca.
«Di vergognoso!» esclamò l’avvocato alquanto allarmato e piuttosto incline ad irritarsi, di conseguenza. «Di che parlate? Cosa volete dire?»
«Io non oso parlare, signore,» fu la risposta «ma, se volete venire con me, lo vedrete voi stesso.»
Il signor Utterson per tutta risposta si alzò, prese il cappello e il soprabito, con meraviglia osservò il grande sollievo che apparve sul volto del maggiordomo, e, con non minore sorpresa forse, il fatto che il bicchiere di vino fosse ancora intatto, quando l’altro lo depose per seguirlo.
Era una brutta, fredda e ventosa notte di marzo, con una pallida luna, che se ne stava coricata come se il vento l’avesse inclinata, e con una fuga di nubi leggere e trasparenti. Il vento rendeva difficile parlare, e faceva affiorare il sangue in faccia. Pareva aver spazzato le strade, insolitamente vuote di passanti; il signor Utterson pensò che non aveva mai veduto quella parte di Londra tanto deserta. Avrebbe desiderato il contrario; mai in vita aveva provato un così acuto desiderio di vedere e toccare i propri simili; perché, per quanto lottasse, nella sua mente s’era insinuato un cupo presentimento di calamità. La piazza, quando vi giunsero, era tutta piena di vento e di polvere, e i sottili alberi nel giardino si piegavano lungo l’inferriata, Poole, che per tutta la strada aveva camminato uno o due passi avanti, ora si ritrasse nel mezzo del marciapiede, e, nonostante il freddo pungente, si tolse il cappello e si asciugò la fronte con un fazzoletto rosso. Sebbene avessero camminato in fretta, quello non era sudore di fatica, era un’estrema angoscia a imperlargli la fronte; infatti la faccia di Poole era bianca e la sua voce, quando parlò, suonò aspra e rotta.
«Ebbene, signore, eccoci qui,» disse, «e Dio voglia che non sia accaduto nulla di male.»
«Speriamo, Poole» disse l'avvocato.
Così detto il maggiordomo bussò alla porta in modo molto discreto; la porta si aprì con la catena di sicurezza, poi una voce chiese dall’interno: «Siete voi, Poole?»
«Sono io, aprite pure» disse Poole.
L’ingresso, quando entrarono, era chiaramente illuminato; il fuoco ardeva con una bella fiamma; intorno al focolare tutta la servitù, uomini e donne, se ne stava raggruppata come un gregge. Nel vedere il signor Utterson, la cameriera scoppiò in un isterico piagnisteo; e la cuoca esclamando: «Dio sia benedetto! È il signor Utterson!» si slanciò avanti, come per abbracciarlo.
«Cosa succede? Che c’è? Siete tutti qui?» chiese l’avvocato con disappunto. «Non è regolare, il vostro padrone ne sarebbe tutt’altro che contento.»
«Sono tutti spaventati» disse Poole.
Seguì un profondo silenzio, nessuno protestava; solo la cameriera alzò la voce, ora piangeva forte.
«Tacete!» le disse Poole, con un tono cattivo che denotava come avesse i nervi tesi; infatti, quando la ragazza aveva improvvisamente alzato il tono del suo pianto, tutti avevano sussultato, si erano voltati verso la porta della sala con espressione di terrore e di attesa.
«E ora,» continuò il maggiordomo, rivolgendosi ad uno sguattero «portami una candela, e mettiamo a posto subito questa faccenda.» Poi pregò il signor Utterson di seguirlo, e lo condusse verso il cortile interno.
«Adesso, signore,» disse «camminate più piano che potete. Voglio che sentiate, ma che non vi facciate udire. E badate, signore, se per caso vi dicesse di entrare, non entrate.»
I nervi del signor Utterson, a quella inattesa conclusione, ebbero una tale scossa che quasi perse l’equilibrio; ma l’avvocato si riprese, e seguì il domestico nel laboratorio e attraverso la sala anatomica, fra tutte le casse e le bottiglie, sino ai piedi della scala. Qui Poole gli fece segno di fermarsi da un lato, e di mettersi in ascolto; intanto lui, depositando la candela e raccogliendo tutto il proprio ardire, salì la scala e bussò con mano malsicura sulla stoffa rossa della porta del gabinetto privato.
«Signore, c’è il signor Utterson che vuole vedervi» disse; e così dicendo, ancora una volta fece cenno con forza, all’avvocato, di ascoltare.
Una voce rispose dall’interno in tono lamentoso: «Ditegli che non posso vedere nessuno.»
«Grazie, signore» rispose Poole, con accento quasi di trionfo, e, prendendo la candela, riaccompagnò il signor Utterson attraverso il cortile nella grande cucina, ove il fuoco era spento e gli scarafaggi correvano sul pavimento.
«Signore,» disse guardando negli occhi il signor Utterson «vi pare che quella fosse la voce del mio padrone?»
«Sembrava molto cambiata» rispose l’avvocato, molto pallido in faccia; ma ricambiò l’occhiata di Poole.
«Cambiata? Ebbene, sì, lo credo anch’io» disse il domestico. «Da vent’anni che mi trovo in questa casa, posso forse ingannarmi sulla voce del mio padrone? No, signore. Il mio padrone non c’è più. Non c’è da otto giorni, da quando lo udimmo gridare il nome di Dio; ma chi è lì dentro, al suo posto, e perché se ne sta lì, è una cosa che grida vendetta al cielo, signor Utterson!»
«Questo è un caso stranissimo, Poole; è una storia incredibile, amico mio» disse il signor Utterson, mordicchiandosi un dito. «Supponendo che sia come voi pensate, supponendo che il dottor Jekyll sia stato… ebbene, sia stato assassinato, cosa potrebbe indurre l’assassino a restarsene qui? È una cosa assurda, contraria alla logica.»
«Ebbene, signor Utterson, siete difficile da persuadere, ma mi proverò» disse Poole. «Tutta la scorsa settimana, dovete sapere, lui, o chiunque sia quello che vive nel gabinetto, ha gridato notte e giorno per avere una certa specie di medicina, che non riusciva a ottenere. A volte soleva -il mio padrone, cioè scrivere i suoi ordini su un foglio di carta e gettarlo poi sulla scala. Questa settimana non abbiamo avuto altro: solo fogli di carta, la porta chiusa, i pasti li lasciava lì, e li ritirava solo quando non c’era nessuno che potesse vederlo. Ebbene, signore, sì, ogni giorno, e anche due o tre volte al giorno, ci sono stati ordini e lamentele, e io venivo mandato da tutti i farmacisti della città. Ogni volta che portavo a casa una cosa, trovavo un altro foglio che mi diceva di restituirla, perché non era pura, e un altro ordine per un’altra ditta. Quella medicina deve essere molto necessaria, signore, di qualsiasi cosa si tratti.»
«Avete conservato qualcuno di quei fogli?» chiese il signor Utterson.
Poole si frugò in tasca e ne estrasse un biglietto gualcito, che l’avvocato, chinandosi più vicino alla fiamma della candela, esaminò attentamente. Il foglietto portava scritto: «Il dottor Jekyll porge i suoi omaggi ai signori Maw. Li assicura che il loro ultimo campione è impuro e del tutto inutile al suo scopo attuale. Nell’anno 18…, il dottor J. acquistò una considerevole quantità di materiale dai signori M. Ora egli li prega di cercare con il massimo scrupolo e, se restasse ancora un poco dello stesso preparato, di mandarglielo immediatamente. La spesa non ha importanza. La necessità di questo preparato per il dottor Jekyll è vitale». Sin qui là lettera proseguiva abbastanza normalmente, ma a questo punto, con un improvviso scatto della penna, l’emozione dello scrivente apparve chiara.
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