Il nostro fu un viaggio estenuante: lungo strade sterrate irte di sassi, su e giù per colline, attraverso numerosi villaggi; ma non ci fermammo a riposare. Nel tardo pomeriggio, sul fondo di una valle poco profonda e circondata da alberi, incontrammo un villaggio al centro del quale un edificio ampio e aggraziato mi colpì per la sua bellezza, che superava quella di qualsiasi altra costruzione a me nota. L’edificio consisteva di due “iingxande”

(case rettangolari) e sette imponenti capanne circolari, tutte dipinte a calce, di un bianco così abbagliante che la luce del crepuscolo non riusciva a smorzarlo. Sul davanti c’era un grande giardino, e un campo di granturco delimitato da peschi accuratamente potati. Un giardino ancora più spazioso si estendeva sul retro, con alberi stracarichi di mele, un orto, una striscia di fiori e un gazebo. Accanto, una chiesa intonacata.

All’ombra di due alberi della gomma che ornavano l’ingresso principale della casa sedevano in gruppo una ventina di anziani. Sul fertile terreno che circondava la proprietà pascolavano allegre almeno cinquecento pecore e una cinquantina di altri capi di bestiame. Tutto era meravigliosamente curato, e dava un’impressione di ricchezza e di ordine quale mai avrei potuto immaginare. Questo era il Grande Posto, Mqhekhezweni, capitale provvisoria del Thembuland e residenza reale del capo Jongintaba Dalindyebo, sostituto del re e reggente del popolo thembu.

Mentre contemplavo questo inaspettato splendore, una gigantesca automobile oltrepassò rombando il cancello occidentale, e gli uomini seduti all’ombra del fogliame balzarono immediatamente in piedi togliendosi il cappello e gridando: «Bayete a-a-a, Jongintaba!» («Salve, Jongintaba!»), il saluto tradizionale degli xhosa al loro capo. Dalla vettura (seppi più tardi che quel maestoso veicolo era una Ford V8) uscì un uomo basso e tarchiato vestito elegantemente all’occidentale. Notai subito che aveva il portamento e la sicurezza di un uomo abituato a esercitare il comando. Il suo nome gli si addiceva, perché Jongintaba significa letteralmente «colui che guarda le montagne», ed egli era un uomo la cui forte presenza concentrava su di sé l’attenzione di tutti. Aveva una carnagione scura e un viso intelligente, e un modo disinvolto di stringere la mano agli uomini che erano radunati sotto l’albero; i quali, ebbi a scoprire in seguito, erano i membri della più alta corte di giustizia dei thembu. Quello era il reggente, che per i dieci anni successivi sarebbe stato il mio benefattore e il mio tutore.

La prima volta in cui vidi Jongintaba e la sua corte mi sentii come un giovane albero a cui avessero strappato il tronco e le radici dal terreno, e li avessero scaraventati in un ruscello, alla cui forte corrente non riuscivo a opporre resistenza. Provavo un misto di disorientamento e timore. Fino a quel momento non avevo avuto altri pensieri che quelli relativi ai miei piaceri, altra ambizione che quella di mangiar bene e di diventare un campione di lotta col bastone. Non avevo mai pensato al denaro, alla posizione sociale, alla fama, al potere.

A un tratto mi si dischiudeva un nuovo mondo. Trovandosi improvvisamente di fronte a una grande ricchezza, i figli di famiglie povere spesso si sentono travolti da una moltitudine di nuove tentazioni. Io non facevo eccezione. Sentivo che molte delle mie convinzioni e certezze più radicate cominciavano a vacillare.

Le fragili fondamenta costruite dai miei genitori avevano subito un colpo. In quell’istante vidi che la vita poteva riservarmi qualcosa di più che non di diventare un campione di lotta col bastone.

Seppi più tardi che alla vigilia della morte di mio padre, Jongintaba si era offerto di diventare il mio tutore: mi avrebbe trattato come trattava i suoi figli e avrei avuto i loro stessi privilegi. Mia madre non aveva scelta; era impossibile lasciar cadere una simile disponibilità da parte del reggente. La confortava il sapere che, per quanto le sarei mancato, nelle mani del reggente avrei avuto migliori opportunità di vita che nelle sue. Il reggente non aveva dimenticato che doveva la sua carica attuale proprio all’intervento di mio padre.