Prima di ritornare a Qunu mia madre rimase a Mqhekezweni un giorno o due. Ci salutammo senza clamore.

Non ci furono prediche, né saggi ammonimenti, né baci. Forse non voleva che sentissi la sua mancanza dopo la partenza, quindi era restia a esprimere i sentimenti. Sapevo che mio padre avrebbe voluto che mi istruissi e mi preparassi per inoltrarmi in un mondo più vasto, e questo non era possibile a Qunu. Nel suo tenero sguardo c’erano tutto l’affetto e il sostegno di cui avevo bisogno; al momento di partire, si voltò ancora un istante e mi disse: «Uqinisufokotho, Kwedini!» («Stai in gamba, figlio mio!»). Spesso i bambini sono le creature meno sentimentali che esistano. Perfino mentre la mia adorata madre, e migliore amica, stava partendo, avevo la testa piena delle delizie della mia nuova casa. E come avrei potuto non stare in gamba?

Avevo già indosso una bella veste nuova comperata per me dal mio tutore.

Presto fui assorbito nella vita quotidiana di Mqhekezweni. I bambini si adattano in fretta - o non si adattano affatto - e io mi trovavo così bene a Mqhekezweni da aver la sensazione di esservi cresciuto. Mi sembrava di vivere in una fiaba; tutto era incantevole; le incombenze che a Qunu erano noiose qui diventavano avventure.

Quando non ero a scuola aiutavo ad arare, guidavo il carro, facevo il pastore. Cavalcavo, tiravo agli uccelli con la fionda, e trovavo altri bambini per fare a gara; a volte la notte danzavamo accompagnati dai meravigliosi canti delle ragazze thembu che battevano il ritmo con le mani. Benché Qunu e mia madre mi mancassero, ero totalmente assorbito dal nuovo mondo.

Frequentavo una scuola a classe unica situata proprio accanto al palazzo, e studiavo inglese, xhosa, storia e geografia. Leggevamo il “Chambers English Reader” e scrivevamo su lavagne di ardesia. I nostri insegnanti, il signor Fadana prima e il signor Giqwa poi, mi presero particolarmente a cuore. A scuola andavo bene, non tanto per la mia intelligenza quanto per la mia tenacia; la mia autodisciplina era anche aiutata da mia zia Phathiwe, che viveva a Mqhekezweni, e ogni sera rivedeva i miei compiti.

Mqhekezweni era un avamposto missionario della Chiesa metodista, ed era molto più aggiornato e occidentalizzato di Qunu. La gente indossava abiti moderni. Gli uomini vestivano completi di giacca e pantalone e le donne affettavano il severo stile protestante delle missionarie: gonne lunghe e pesanti e camicette a collo alto, uno scialle drappeggiato sulle spalle e una stoffa avvolta elegantemente attorno al capo.

Se il mondo di Mqhekezweni ruotava attorno al reggente, il mio mondo più piccolo ruotava attorno ai suoi due figli. Justice, il maggiore, era l’unico maschio ed erede del Grande Posto, e Nomafu era la figlia del reggente. Vivevo con loro ed ero trattato esattamente come loro. Mangiavamo lo stesso cibo, portavamo gli stessi vestiti, ci toccavano le stesse incombenze. In seguito si unì a noi anche Nxeko, il fratello maggiore dell’erede al trono Sabata, con il quale formavamo veramente un quartetto reale. Il reggente e sua moglie No-England mi crebbero come un figlio. Si preoccupavano per me, mi guidavano, mi punivano, sempre in uno spirito di amorevole giustizia. Jongintaba era severo, ma non mi fece mai dubitare del suo amore.