Mi chiamavano con l’affettuoso nomignolo di Tatomkhulu, che significa «nonno», perché dicevano che quando ero serio la mia faccia assomigliava a quella di un vecchio.

Justice aveva quattro anni più di me, e fu il mio primo eroe dopo mio padre. Mi ispiravo a lui in ogni cosa.

Justice era già iscritto al convitto di Clarkebury, che distava un centinaio di chilometri da casa. Alto, bello e muscoloso, si distingueva per la sua bravura di atleta, eccelleva nel cricket, nel rugby, nel calcio e nell’atletica leggera. Cordiale ed estroverso, era un attore naturale che incantava il pubblico con il suo canto e lo sbalordiva con la sua agilità nel ballare. Aveva una nutrita schiera di ammiratrici, ma anche una pletora di critici, che lo accusavano di dare troppa importanza all’esteriorità e di vivere unicamente per i suoi piaceri.

Justice e io diventammo ottimi amici, benché per molti aspetti fossimo agli antipodi: io ero introverso, lui estroverso; io ero serio, lui spensierato. A lui le cose riuscivano di getto, io mi dovevo esercitare. Per me rappresentava il giovane ideale, tutto ciò che avrei voluto essere anch’io. Anche se venivamo allevati nello stesso modo, ci aspettavano destini diversi: Justice avrebbe ereditato una posizione di capo tra i più potenti della tribù thembu, mentre io avrei ereditato quello che il reggente, nella sua generosità, avrebbe deciso di donarmi.

Ogni giorno facevo commissioni per il reggente, sia in casa che fuori. Tra i compiti che più mi piacevano, e che facevo con orgoglio, era quello di stirare i suoi abiti. Aveva una dozzina di completi di foggia occidentale che mi tenevano impegnato per ore a rifare la piega ai pantaloni. La sua residenza era costituita da due case all’occidentale con tetti di lamiera. A quei tempi pochissimi africani vivevano in case di stile occidentale, che erano considerate segno di grande agiatezza. Sei capanne circolari erano disposte a semicerchio attorno alla casa principale. Cosa che non avevo mai visto, i pavimenti erano di legno. Il reggente e la regina dormivano nella capanna di destra, la sorella della regina in quella di centro, mentre quella di sinistra era adibita a dispensa. Sotto il pavimento della capanna di centro c’era un alveare: ogni tanto noi ci andavamo e, sollevate un paio d’assi, ci deliziavamo con il suo miele. Poco dopo il mio arrivo a Mqhekezweni il reggente e la regina si trasferirono nell‘“uxande” (o Casa di centro), che divenne automaticamente la Grande Casa. Accanto a essa c’erano tre piccole capanne: una per la madre del reggente, una per gli ospiti, e una che dividevamo io e Justice.

I due princìpi che governavano la mia vita a Mqhekezweni erano la dignità di rango e la Chiesa. Queste due dottrine convivevano in difficile armonia, benché io allora non le vedessi come antagonistiche. Per me il cristianesimo non era tanto un sistema di credenze quanto il credo profondo di una precisa persona: il reverendo Matyolo. Questi godeva del favore generale ed era amato quanto il reggente; il fatto che gli fosse superiore nelle questioni spirituali faceva su di me grande impressione. Ma la Chiesa si occupava anche di questo mondo, non solo dell’altro: vedevo che nella pratica tutte le conquiste degli africani sembravano realizzarsi attraverso il lavoro missionario della Chiesa. Le scuole missionarie preparavano gli scrivani, gli interpreti, e i poliziotti, occupazioni che a quel tempo erano il massimo a cui un africano potesse aspirare.

Il reverendo Matyolo era un uomo corpulento tra i cinquanta e i sessant’anni, con una voce profonda e potente che si prestava bene alla predica e al canto. Quando predicava nella semplice chiesa all’estremità occidentale di Mqhekezweni, la sala era sempre gremita.