La chiesa risuonava delle lodi dei fedeli, e le donne si inginocchiavano ai suoi piedi per riceverne la benedizione. La prima leggenda che udii sul suo conto fu che il reverendo aveva cacciato uno spirito maligno avendo come sole armi una lanterna e la Bibbia. Non mi pareva che questa storia fosse improbabile o contraddittoria. Il metodismo predicato dal reverendo Matyolo faceva balenare le fiamme dell’inferno, e concedeva spazio a un po’ di animismo africano. Il Signore era saggio e onnipotente, ma era anche un Dio vendicativo che non lasciava alcun male impunito.
A Qunu, l’unica volta che ero andato in chiesa era stato il giorno del mio battesimo. La religione era un rito al quale consentivo per amore di mia madre, senza darle però alcun significato particolare. Ma a Mqhekezweni la religione era parte della nostra vita: ogni domenica andavo in chiesa con il reggente e sua moglie. Il reggente prendeva molto sul serio la religione. Di fatto, l’unica volta che mi toccò uno scappellotto da parte sua fu quando marinai la messa domenicale per prender parte a una battaglia contro i ragazzi di un villaggio vicino: un’infrazione che non commisi mai più.
Ma quello non fu l’unico rimprovero che ricevetti a causa delle mie trasgressioni nei confronti del reverendo.
Un pomeriggio sgusciai nel giardino del reverendo Matyolo e rubai qualche pannocchia, che arrostii e mangiai lì sul posto. Una bambina mi vide mentre mangiavo il granturco nel giardino e subito riferì la mia presenza al sacerdote. La notizia circolò rapidamente e raggiunse la moglie del reggente. Quella sera la donna attese fino all’ora della preghiera - che in casa era un rito quotidiano - e mi chiese ragione del misfatto, rimproverandomi per aver preso il pane a un povero servo di Dio gettando la vergogna sulla famiglia. Disse che il mio peccato era stato compiuto sotto l’influenza del diavolo. La sensazione che provai fu una sgradevole mescolanza di paura e vergogna: paura di avere scatenato sul mio capo una qualche punizione divina, e vergogna per aver abusato della fiducia della mia famiglia adottiva.
In virtù del generale rispetto che veniva tributato al reggente - da parte sia dei neri sia dei bianchi - e del potere apparentemente illimitato che egli esercitava, vedevo nella dignità del capo il centro attorno al quale ruotava l’esistenza. Il potere e l’influenza del suo rango pervadevano ogni aspetto della nostra vita a Mqhekezweni ed erano i mezzi più elevati con i quali si potessero acquisire influenza e posizione sociale.
Il concetto di leadership che elaborai negli anni successivi fu profondamente influenzato dall’osservazione del reggente e della sua corte. Nelle riunioni tribali che si tenevano regolarmente al Grande Posto osservavo e imparavo moltissimo. Quelle riunioni non erano programmate ma venivano indette secondo necessità, e vi si discutevano questioni nazionali quali la siccità, la selezione del bestiame, le politiche ordinate dal magistrato e le nuove leggi decretate dal governo. Tutti i thembu erano liberi di partecipare, e molti lo facevano arrivando a piedi o a cavallo.
In quelle occasioni il reggente era circondato dai suoi “amaphakathi”, un gruppo di consiglieri di alto rango che fungevano da parlamentari e magistrati. Quegli uomini saggi erano depositari della storia e delle tradizioni tribali, e la loro opinione era altamente rispettata.
Della riunione, i capi e i sovrintendenti venivano avvertiti per lettera, e presto il Grande Posto si popolava di ospiti importanti e di viaggiatori provenienti da tutto il Thembuland. Gli ospiti si riunivano nel cortile di fronte alla casa del reggente, il quale apriva la riunione ringraziando i presenti per essere venuti ed esponendo le ragioni per le quali li aveva convocati. Da quel momento in poi non pronunciava più parola fin quando la riunione volgeva al termine.
Chiunque lo desiderasse poteva parlare. Era la democrazia nella forma più pura.
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