Poteva esserci una gerarchia di importanza tra gli oratori, ma tutti venivano ascoltati, sudditi e capi, guerrieri e uomini di medicina, commercianti e contadini, proprieta-ri terrieri e braccianti. Gli interventi si susseguivano senza sosta e le riunioni duravano molte ore. Il fondamento dell’autogoverno era che tutti gli uomini fossero liberi di esprimere la propria opinione e uguali nel loro valore di cittadini. (Temo che le donne fossero considerate cittadini di rango inferiore.)
Nel corso della giornata veniva servito un sontuoso banchetto, e spesso mi facevo venire il mal di pancia a forza di mangiare, mentre ascoltavo gli oratori. Notavo che alcuni degli intervenuti divagavano senza venire mai al punto; e che altri affrontavano direttamente l’argomento o presentavano una serie di argomentazioni in modo convincente e stringato. Vedevo che alcuni degli oratori usavano l’emozione e il linguaggio drammatico come tecniche per smuovere il pubblico, mentre altri adottavano un tono sobrio e pacato disdegnando di far leva sull’emotività.
Sulle prime fui stupito dalla veemenza - e dal candore - con cui la gente criticava il reggente. Questi non era affatto al di sopra della critica; in realtà ne era spesso l’oggetto principale. Ma indipendentemente dalla consistenza dell’accusa, il reggente ascoltava soltanto, senza difendersi e senza mostrare la minima emozione.
Le riunioni continuavano fino a che non si creava una intesa. O si finiva con l’accordo unanime, o si continuava. L’unanimità si poteva trovare tuttavia nel concordare che si era in disaccordo, che si doveva attendere un momento più propizio per proporre una soluzione. Democrazia significava che tutti i presenti dovessero essere uditi, e che una decisione dovesse essere presa complessivamente come popolo. La regola della maggioranza era un concetto sconosciuto: la minoranza non doveva in ogni caso essere schiacciata.
Solo alla fine della riunione, quando il sole era al tramonto, il reggente parlava. Il suo compito era quello di riassumere ciò che era stato detto e di creare una convergenza tra le diverse opinioni. Ma se qualcuno ancora dissentiva, non gli veniva imposta alcuna decisione. Se non si riusciva a raggiungere un accordo, si sarebbe tenuta un’altra riunione. In chiusura di consiglio un cantore o un poeta innalzavano un’ode agli antichi re, e dedicavano ai capi attuali una composizione tra l’elogiativo e il satirico che il pubblico - reggente in prima fila - accompagnava con scrosci di risate.
Nelle mie successive funzioni di leader, ho sempre seguito i princìpi che vidi applicati per la prima volta dal reggente a Mqhekezweni. Nelle discussioni ho sempre cercato di ascoltare quel che una persona aveva da dire prima di azzardare il mio parere. Ancora oggi, spesso, la mia opinione rappresenta semplicemente una somma di ciò che è emerso nel corso della discussione. Ricordo sempre il detto del reggente: un capo, sosteneva, è come un pastore: sta dietro al gregge e fa in modo che le pecore più sveglie vadano avanti, così che le altre siano stimolate a seguirle, senza rendersi conto che per tutto il tempo c’è alle spalle qualcuno che le guida.
Fu a Mqhekezweni che nacque il mio interesse per la storia africana. Fino a quel momento avevo sentito solo raccontare le gesta degli eroi xhosa, ma al Grande Posto si parlava di altri eroi africani come Sekhukhuni re dei bapedi, Moshoeshoe re dei basotho, Dingane re degli zulu, e di altri ancora come Bambatha, Hintsa e Makanna, Montshiwa e Kgama. Udii parlare di questi uomini dai capi e dai sovrintendenti che venivano al Grande Posto per appianare le dispute e giudicare i casi. Pur non essendo avvocati, presentavano le cause e poi emettevano le sentenze. Talvolta, se l’esame dei casi si concludeva per tempo, essi sedevano attorno a un tavolo e incominciavano a raccontare. Io ascoltavo aggirandomi silenziosamente nei pressi. Atteggiati a solenne compostezza parlavano un idioma che non avevo mai sentito, usando un tono elevato e formale dove i tradizionali schiocchi della nostra lingua erano lunghi e drammatici.
1 comment