All’inizio mi mandavano via dicendo che ero troppo giovane per ascoltare. In seguito cominciarono a chiamarmi per attizzare il fuoco o per portare l’acqua, o per mandarmi a dire alle donne che volevano il tè; nei primi mesi ero così occupato a svolgere queste incombenze che non riuscivo a seguire il filo dei discorsi. Ma alla fine mi permisero di restare, dandomi così modo di conoscere i grandi patrioti africani che avevano combattuto contro la dominazione occidentale. I racconti delle magnifiche imprese dei guerrieri africani mi accendeva la fantasia.
A intrattenere gli anziani con le antiche leggende era spesso il più vecchio dei capi: Zwelibhangile Joyi, figlio della Grande Casa di re Ngubengcuka. Capo Joyi era così vecchio che la pelle rugosa gli pendeva addosso come un abito informe. Raccontava lento, e spesso tormentato da accessi di tosse sibilante che a volte lo costringevano a interrompersi per parecchi minuti. Capo Joyi era la più grande autorità in materia di storia thembu, soprattutto per il fatto di averne vissuta direttamente una gran parte.
E malgrado il suo aspetto decrepito, le spalle gli si alleggerivano di decenni quando raccontava dei giovani
“impi”, o guerrieri, che avevano combattuto gli inglesi nell’armata di re Ngangelizwe. Dall’espressione del viso e del corpo, sembrava di vederlo scagliare la lancia o strisciare nel veld, quando dipingeva le vittorie e le sconfitte, magnificando l’eroismo, la generosità e l’umiltà di Ngangelizwe.
Ma non tutte le storie di capo Joyi ruotavano attorno ai thembu. Quando lo udii per la prima volta raccontare le imprese di guerrieri non xhosa non riuscii a capirne il perché. Ero come un ragazzo che adorasse una stella del calcio locale ma non provasse il minimo interesse per il campione nazionale con il quale non esisteva alcun legame. Solo in seguito fui conquistato dall’ampia varietà della storia africana, e dalle gesta degli eroi africani a prescindere dalla tribù di appartenenza.
Capo Joyi tuonava contro i bianchi, che accusava di aver deliberatamente diviso la tribù xhosa sobillando i fratelli contro i fratelli. I bianchi avevano detto ai thembu che il loro vero capo era la grande regina bianca che viveva al di là dell’oceano, e che dovevano considerarsi suoi sudditi. Ma la regina bianca aveva portato ai neri solo miseria e tradimento, e quindi se era un capo doveva essere un cattivo capo. Le storie di guerra di capo Joyi e le accuse che rivolgeva agli inglesi mi facevano sentire truffato e adirato, quasi fossi già stato espropriato del mio diritto di nascita.
Capo Joyi diceva che tra gli africani erano esistiti rapporti relativamente pacifici fino alla venuta degli
“abelungu”, i bianchi, che erano sbarcati d’oltremare con armi che sputavano fuoco. Un tempo - egli diceva - i thembu, i mpondo, gli xhosa erano tutti figli di un solo padre, e vivevano come fratelli. I bianchi avevano spezzato l‘“abantu”, la fratellanza, delle varie tribù. I bianchi erano avidi e affamati di terra, e i neri l’avevano condivisa così come condividevano l’aria e l’acqua: la terra non poteva essere posseduta dall’uomo. Ma i bianchi si erano impadroniti della terra come ci si potrebbe prendere il cavallo di un altro.
Ancora non sapevo che la vera storia del nostro paese non si trovava nei libri scritti dagli inglesi, i quali la facevano iniziare dal 1652, anno dello sbarco di Jan Van Riebeck al Capo di Buona Speranza. Da capo Joyi cominciai a scoprire che la storia dei popoli di lingua bantu era cominciata molto più a nord, in un paese di laghi, vallate e verdi pianure, e che lentamente nel corso dei millenni ci eravamo aperti il cammino giù giù fino alla punta estrema del grande continente. In seguito mi accorsi tuttavia che le notizie storiche di capo Joyi, soprattutto successive al 1652, non sempre erano esatte.
A Mqhekezweni non mi sentivo diverso dal proverbiale ragazzo di campagna che arriva nella grande città.
Mqhekezweni era molto più evoluta di Qunu, i cui abitanti erano considerati arretrati dalla gente di Mqhekezweni. Il reggente era restio a lasciarmi andare a far visita a Qunu, perché pensava che nel mio antico villaggio avrei potuto regredire legandomi a cattivi compagni. Quando infine ci andai, ebbi la sensazione che il reggente avesse istruito mia madre, perché m’interrogava insistentemente su quali fossero i miei compagni di gioco.
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