Quando io ero ancora poco più di un neonato, mio padre fu coinvolto in una disputa che lo privò del suo ruolo di capo e mise a nudo un tratto del suo carattere che credo abbia trasmesso a suo figlio. Ritengo che l’ambiente, più della natura, sia responsabile nel plasmare una personalità, ma c’erano in lui un ribellismo orgoglioso, un ostinato senso della giustizia, che io riconosco in me stesso. In qualità di capo - o sovrintendente, com’era spesso noto tra i bianchi - doveva render conto dei suoi uffici non solo al re thembu ma anche al magistrato locale. Un giorno, uno dei sottoposti di mio padre imbastì contro di lui una lagnanza in merito a un bue sfuggito alla custodia del proprietario. Di conseguenza, il magistrato mandò a mio padre un messaggio nel quale gli ordinava di comparire nel suo ufficio. Quando ricevette la chiamata, la risposta che inviò fu la seguente: «Andizi, ndisaqula» («Non vengo, mi sto ancora preparando per la battaglia»). A quel tempo sfidare i magistrati era temerario. Un simile comportamento era considerato il massimo dell’insolenza - e in quel caso effettivamente lo era.

La risposta di mio padre implicava la convinzione che il magistrato non avesse su di lui alcun legittimo potere. Riguardo alle questioni tribali il suo riferimento non erano le leggi del re inglese, bensì la tradizione thembu; e la sua sfida non era una ripicca ma un’importante questione di principio: contrapponendosi all’autorità del magistrato, esercitava le sue prerogative di capo.

Quando il magistrato ricevette la risposta di mio padre, emise a suo carico un’accusa di insubordinazione.

Non ci sarebbe stata inchiesta; ne avevano diritto solo i funzionari bianchi. Il magistrato depose semplicemente mio padre, mettendo fine alla dinastia dei capi appartenente alla famiglia Mandela.

All’epoca non fui consapevole di questi fatti, ma ne venni ugualmente toccato. Mio padre, che per gli standard di allora era un ricco signore, perse contemporaneamente il titolo e le proprietà. La maggior parte del gregge e delle terre gli fu confiscata, privandolo così del reddito proveniente da essi. A causa delle ristrettezze in cui versavamo, mia madre si trasferì a Qunu, un villaggio leggermente più grande a nord di Mvezo, dove avrebbe avuto l’appoggio di amici e parenti. A Qunu conducevamo vita più modesta, ma fu in quel villaggio nelle vicinanze di Umtata che passai gli anni più felici della mia infanzia; a Qunu, e a quel periodo della vita, risalgono i miei ricordi più lontani.

2.

Il villaggio di Qunu sorgeva in una valle stretta ed erbosa, attraversata da limpidi torrenti e dominata da verdi colline. La popolazione ammontava a non più di qualche centinaio di persone, che vivevano in capanne circolari: queste erano strutture ad alveare, con pareti di fango e un palo di legno al centro che sosteneva un ripido tetto d’erba. Il pavimento era fatto di formicai frantumati, di quella dura terra di scavo che si erge sulle colonie di formiche disegnando pinnacoli; per mantenerlo liscio, lo si spalmava regolarmente con sterco di mucca fresco. Il fumo del focolare si disperdeva dalle fessure del tetto, e l’unica apertura era una porta bassa per varcare la quale era necessario curvarsi. Le capanne erano generalmente raggruppate in una zona residenziale a una certa distanza dai campi di mais. Non c’erano strade, solo sentieri nell’erba tracciati da donne e ragazzi a piedi nudi. Le donne e i bambini del villaggio indossavano coperte tribali tinte di ocra; solo i pochi cristiani vestivano all’occidentale. Il bestiame, le pecore, le capre e i cavalli erano fatti pascolare su terreni comuni. La terra attorno a Qunu era quasi completamente priva d’alberi, tranne un gruppo di pioppi su una collina sovrastante il villaggio. La terra stessa era di proprietà dello stato. Tranne pochissime eccezioni, gli africani a quel tempo in Sudafrica non avevano il diritto di possedere privatamente delle terre; erano solo inquilini che pagavano annualmente un affitto allo stato.